
Saul non dice una parola.
Non appena i suoi occhi vitrei incontrano quelli ardenti di mio padre per la collera, lui si ritrae; rinunciando, per il momento, alle sue viscide mire su di me.
Alla sua seduzione perversa.
Ma tentatrice.
Che mi aveva fatto vacillare su ciò che è giusto o sbagliato.
Sembra temere Azrael per qualche strano motivo.
Un motivo che ignoro.
Ma che voglio scoprire.
Perché se c’è una cosa che mi caratterizza, insieme alla vanità e il peccato della lussuria, è la mia irrefrenabile curiosità.
Perché se un uomo come Saul teme qualcuno, in questo caso Azrael, vuol dire che c’è qualcosa che mio padre mi sta nascondendo e di cui dovrei preoccuparmi.
Il sacerdote eterno raccoglie appena le sue cose da terra, insieme alle sue tentazioni che lo avevano fino a un attimo prima traviato; e con calma e dignità se ne va, lasciandoci soli sul posto ad osservarlo.
Se ne va.
Come se niente fosse.
Non di corsa.
Non con vergogna.
Ma con la solennità e la fierezza di chi si sente corretto anche quando è nel torto.
Come fa molta gente.
Eppure, delle sue attenzioni, adesso sento un po’ di nostalgia. Bramo ancora un suo abbraccio. O per meglio dire, un contatto di qualcuno, anche se so quanto quella cosa sia sbagliata.
Essere nati soli rende vulnerabili a tutto e insaziabilmente affamati di amore.
Bulimici.
Anche di ciò che non ci piace e che ci provoca disgusto.
E forse una parte recondita di me si sarebbe cibata anche di un amore sbagliato, fatto con un uomo molto più grande di me.
Qualcosa di simile a un abuso.
Lui va via spavaldo, e un po’ mi manca.
Mi manca un po’ di quel calore che mi ha dato.
Va via, come se non avesse appena provato a rubarmi qualcosa che per me è sacro.
Se ne va, senza neanche provare rimorsi.
È vero, sono stata tentata dall’affetto.
Ma io sono una giovane che non sa ancora chi è, qualcuno di vulnerabile; mentre lui è un uomo con il triplo dei miei anni: non sarebbe stata una cosa moralmente lecita; questo lo so.
Eppure c’è qualcosa di irresistibilmente attraente in ciò che è moralmente sbagliato.
Azrael resta immobile per qualche secondo, con le braccia tese nell’aria come se dovesse ancora affrontarlo.
Rimane in allerta, tutto trafelato, pronto a prendersi cura di me come il più impavido degli eroi.
Le mani sono come spade che sguaina solo per me e ancora una volta mi sento la bella da salvare.
Anche lui, dopotutto, è un mio cavaliere.
In fin dei conti, non sono poi così tanto sola se ho Sethar e Azrael nella mia vita.
Lo osserva andare via senza fermarlo, con un’intensità che non è da lui.
Lo fissa come se fosse pregno di uno strano sentimento che nemmeno lui riconosce; e che infatti lo confonde.
Un’ emozione che non ho mai visto indirizzare a lui neanche alle donne più belle.
Che sia ammirazione?
O amore?
Non so.
Ma la cosa mi incuriosisce e ha un certo fascino.
Lentamente si volta verso di me; non per riservarmi l’ennesimo rimprovero ma qualcosa di diverso: una rara confessione del suo cuore.
«Sai, un tempo noi eravamo amici io e Saul; eravamo inseparabili: non si capiva dove iniziava lui e dove finivo io.»
La voce che fuori esce è malinconia pura fattasi suono.
Il suo modo di parlare è nostalgico come se ricordasse di vecchi momenti felici trascorsi.
Momenti che non torneranno più.
«Eravamo migliori amici, fratelli addirittura, se devo essere onesto: con lui ho passato i momenti più belli della mia vita.»
Ciò che emerge sul suo volto è un raro sorriso che imprimerò nella mia mente per sempre.
Perché non ne concede parecchi.
Azrael non è tipo che si concede smorfie del genere di solito.
Per cui questo momento è speciale.
«E poi?» chiedo.
incuriosita dal suo parlare.
Il suo sguardo diventa un velo che nasconde la verità.
Fissa il pavimento per distrarsi.
«Poi abbiamo avuto divergenze di pensiero. Lui ha una concezione di ciò che è giusto e sbagliato diversa dalla mia, ecco tutto; lui non condivide il mio pensiero e io non condivido il suo; per questo ci siamo dovuti allontanare.»
Non aggiunge altro.
La risposta è laconica, ma lugubre come una campana funebre.
Cerco di cogliere qualcosa nei suoi occhi, ma Azrael è diventato un muro fatto di pietra.
Inaccessibile nei suoi sentimenti.
Come la moglie di Lot mentre fuggiva da Sodoma e Gomorra sfidando il divieto divino.
Diventa ai miei occhi una statua di sale.
Immobile.
Torna essere un muro invalicabile che lascia fuori gli altri dai suoi sentimenti e dai suoi pensieri.
«Devi andare, Nym.» mi esorta, incurante della curiosità che ha destato in me.
«Andare dove?»
Per un attimo mi dissocio dalla realtà, perdendomi ancora.
«A scuola. Come dove?.»
Ah, già vero.
Lo avevo dimenticato.
Forse le amnesie stanno ritornando.
Trattengo un sussulto e mi do un colpo sulla testa.
Dicendomi quanto sono sbadata.
Procrastinare è ciò in cui sono sempre stata molto brava: il mio talento naturale.
Un talento assai inutile, a dirla tutta…
Temporeggio, mentre il mondo corre veloce e io non posso fermarlo.
Mi perdo, perché il tempo che scorre nei miei pensieri è più adatto rispetto a quello della realtà che va troppo veloce.
Una realtà in cui non mi ritrovo.
Quel tempo che mi rende la voce fuori dal coro.
L’elemento stonato.
«Non posso prendere la metro, padre; non arriverò mai in orario. Forse oggi è meglio che io non vada. E poi… dovrei ancora cambiarmi»
Mi zittisce con un gesto della mano.
«Userai la fossa.»
Un brivido mi corre lungo la schiena.
La Fossa.
Il Varco dell’Interregno.
Il buco dei 49 giorni che inganna la morte.
No… non voglio.
È troppo pericolosa.
E non voglio rischiare la vita solo per evitare un ritardo a scuola.
Ma dal suo sguardo mi accorgo che dovrò fare proprio così come mi dice.
La fossa…
Un passaggio segreto, usato dagli esorcisti per attraversare i confini di questo mondo e accedere nell’altro; usato per percorrere lunghe distanze in tempi brevissimi; usato solo per le emergenze.
Perché non immune dai rischi.
Consiste in una voragine profonda che emerge dal suolo della stanza delle reliquie; una specie di buco nero, in cui ti getti per entrare da una parte e sbucare da un’altra.
Una sorta di portale.
Per i primi dieci minuti fluttui nel vuoto di quel buco senza sosta, come sulle giostre in discesa, poi il buco si trasforma lentamente in bara fatta di terra che ti ingloba, facendoti mangiare la terra, e morire in un punto per rinascere in un altro.
Preservando però in te le stesse memorie.
Peccato che io sia claustrofobica.
E che l’idea di stare in una bara mi terrorizzi.
Il fosso ti uccide…
letteralmente
Ma poi ti ricrea.
Da un’altra parte.
È così che funziona.
È un passaggio che è sfuggito alle ferree regole della morte.
Un glitch del suo sistema.
Ma lui non lo sa.
Noi sacerdoti glielo teniamo segreto da secoli e non s’è mai accorto.
È un buco dove ci si getta di schiena. E dove occorre chiudere gli occhi per tutto il tempo, trattando il respiro per ingannare gli shinigami.
Perché se apri gli occhi, la morte ti vede.
E viene a cercarti.
Occorre fingere di essere deceduti per 49 giorni.
49 giorni del tempo dell’oltretomba.
Che nella vita vera equivalgono a pochi istanti…
Ma se dimentichi come si finge, ci rimani intrappolato.
Per sempre.
E non esisterà per te né il paradiso né l’inferno: soltanto solitudine.
Perché la morte si offende se provi ad imbrogliarla.
Per questo è un sistema di trasporto pericoloso.
La morte se ti scopre, reclamerà la tua anima per stare insieme a lei e farti sua schiava.
O peggio, il passaggio diventerà per te una tomba eterna dove tu continui a fluttuare cadendo in eterno.
O rimanendo chiusa in una bara senza mai parlare con nessuno.
Da sola.
Per l’eternità.
La mia peggiore paura.
«Non voglio entrarci, padre…»
La mia voce si fa piccola.
Spaventata.
Azrael non si volta.
Mi tratta come se fosse il mio ennesimo capriccio infantile ma io so che non è così.
È umano avere delle fobie.
Ma lui mi tratta come se dovessi essere invincibile.
Perfetta.
Impeccabile.
Senza macchia come Sethar.
O addirittura migliore di lui.
Perché sono una ragazza.
Come se la fragilità o l’errore non mi fossero concessi.
Ha delle aspettative irrealistiche nei miei confronti.
Non mi sono mai sentita capita da lui.
E se c’è qualcosa che temo più al mondo è trovarmi da sola con me stessa per l’eternità.
Lui solleva gli occhi al cielo.
E io attendo un’altra ramanzina.
«Tutti hanno paura la prima volta, Nym. Ma adesso devi ascoltare quello che ti dico come Mosè ascoltò Dio quando gli parlò dal roveto ardente: anche lui aveva paura, non voleva ascoltarlo perché non si sentiva capace del suo compito, ma adempì lo stesso a quell’ordine perché glielo disse lui, il suo Dio, l’autorità; e tu devi prendere il suo esempio e fare come ti dico io, perché sono tuo padre, capisci?.»
Abbasso gli occhi.
Stringo i pugni dietro al vestito.
La cosa che trascura è che io non sono Mosè.
Sono solo una ragazza di appena 18 anni spaventata dalla morte e dalla solitudine eterna.
Terrorizzata in generale da qualsiasi cosa.
E lui questo non lo prende mai in considerazione.
Perché non mi capisce.
Vede solo se stesso e ciò che lui è in grado di fare alla sua età.
Non si mette mai nei miei panni.
Nei miei panni sporchi.
Mi ripeto che non voglio ma devo.
Mi faccio forza perché gli voglio bene.
Ma cerco di far valere le mie motivazioni.
«È una bara, padre: potrei rimanere intrappolata lì per sempre.»
Faccio un ultimo tentativo.
Ma dal suo sguardo capisco che è tutto inutile.
«È solo un portale, Nym» mi interrompe, ponendo fine alle mie lamentele. «E no, non ti succederà nulla perché sei mia figlia e sei forte. E perché Sethar verrà con te; gli ho chiesto io di accompagnarti.»
La sua voce si fa ieratica, profonda.
Audace.
Ma non abbastanza da rassicurarmi.
Eppure l’idea di stare con Sethar mi rende l’idea della morte meno problematica.
Se morissi adesso con lui sarei felice.
«Solo chi muore lì dentro… può rinascere altrove; laddove serve davvero.» mi ricorda, come se non lo sapessi già.
Questo è il senso del portale.
Si muore soltanto per pochi minuti, per rispuntare in un altro posto come in una reincarnazione breve dove si mantengono però le memorie.
Per questo occorrono 49 giorni.
Per ingannare la morte.
49 giorni come i giorni che servono al corpo per reincarnarsi.
Azrael si volta.
Fra le mani ha qualcosa. Un abito nero come la notte, piegato con precisione e attenzione: la mia divisa.
Quella un po’ più carina, quella da cerimonia.
Mi imbarazza indossarla.
Penseranno tutti che sono una ragazza vanitosa che vuole farsi bella al suo primo giorno di lezione.
E la cosa, se devo essere sincera, non mi dispiace così tanto.
Dopotutto, nel profondo, so di esserlo un po’.
Lussuriosa e vanitosa.
Per una volta, mi piacerebbe proprio essere bella per i ragazzi ed essere guardata dai loro.
Me lo porge, con cura.
«Mettiti questo.» impone.
E io lo ascolto, obbediente.
La sua voce austera suona come un comando divino.
«Sethar mi ha raccontato cosa è successo.»
Fa una pausa.
Un respiro.
Le sue iridi chiare diventano due fenditure di giudizio.
«Ti ho portato un cambio.»
Abbasso lo sguardo.
La vergogna mi avvolge tutta.
Lui continua, con la calma spietata di chi ha giurato di non cedere mai alle emozioni ma per me, ancora una volta, fa un’eccezione.
«Che non succeda mai più, Nym.»
Si morde le labbra.
È il suo modo di trattenere il dissenso per ciò che sono.
Fa sempre così quando qualcosa non gli va bene, ed è per questo che mi aspetto un rimprovero.
«Non corrompere più Sethar; lui è un bravo ragazzo.»
E così, implicitamente, mi sta dicendo che io non lo sono.
Quelle parole non sono solo un ordine.
Sono una promessa che mi costringe a fare.
Rinunciare a Sethar.
E per questo mi costringe a mentirgli.
Perché non potrei mai rinunciare a lui.
Il mio cuore non potrebbe mai farlo.
Preferirei morire piuttosto che rinunciare a Sethar che è il mio amore predestinato.
Ma faccio segno di sì con la testa, per indicargli di aver capito l’ordine.
Così senza dire altro mi aiuta a vestirmi, e lo fa senza guardarmi.
Come se anche uno sguardo di troppo potesse contaminare anche lui con la mia vergogna.
So di averlo deluso.
Come se la vergogna che provo non fosse già abbastanza da sopportare da sola e in silenzio.
Ma lascio che si sfoghi come meglio può.
Dopo aver chiuso l’ultimo bottone della mia divisa scura, si incammina davanti a me, in direzione della fossa, con passo fermo e deciso, senza dire nulla.
Motivo per cui lo seguo.
Azrael non si volta mai.
Non una sola volta.
Forse è in collera con me.
Il suono dei suoi passi echeggia nell’aria; un ritmo grave e inesorabile.
Ogni passo è colmo di una rabbia repressa.
Ogni passo, un giudizio.
Che rivolge a me, e a me soltanto.
Mai a Sethar.
So che è così anche se non me lo dice.
Camminiamo senza dialogare.
E infine… eccola.
La Fossa.
Chiusa da una botola antica, scolpita in oro e rosso sangue.
Il sangue vivo.
Il colore della nostra casata.
Caratteri sanscriti che sembrano parlare.
Bisbigliare segreti.
Segreti indicibili.
Che parlano di morte e trasformazione.
Quando arriviamo davanti alla voragine, iniziano a tremarmi le mani.
Azrael prende una torcia per fare luce, mostrando un buco nero senza fondo, che non fa altro che risvegliare in me la paura.
La paura di non farcela.
Di non essere all’altezza di ciò che mi chiede di fare.
Poi si volta per la prima volta incontrando i miei occhi spaventati.
La prima volta da quando siamo scesi.
Nel suo sguardo non c’è rabbia.
Solo quella solennità grave e dolce che hanno i padri che si preparano a lasciar andare i propri figli nel mondo.
«Qui si entra da soli, Nym. Vai e rendimi fiero.»
Una leggera carezza mi scompiglia i capelli.
«Dovrai gettarti nel fosso da sola. Di schiena, mi raccomando. Con il viso rivolto verso nord. Altrimenti rimarrai lì bloccata, per sempre, senza avere la possibilità di morire. Senza andare né negli inferi né nel paradiso, quindi stai attenta: dovrai trattenere il respiro e la paura. Questo è la cosa più importante. Ma non ti preoccupare: Sethar ti seguirà. La tua famiglia non ti abbandonerà mai.»
Ed è in quel momento che Sethar compare alle sue spalle.
Come se fosse la personificazione della sua ombra.
«Vi ho concesso questa discesa insieme solo perché voglio che tu sappia, Nym, che nonostante tutto… non sei sola e che noi ci saremo sempre per te.»
Io e Sethar ci scambiamo uno sguardo di intesa.
Nei suoi occhi c’è qualcosa di strano che non afferro.
Quel ragazzo rimarrà per sempre un mistero per me.
E la cosa mi piace.
Spinge la mia vanità di donna a risolvere il suo enigma.
Forse non mi ha ancora perdonato per quello che gli ho fatto.
Ma dentro a quella fossa mi farò perdonare.
Dopotutto, avremo 49 giorni di tempo per parlare.
«Nym…» sussurra lui.
E mi prende per la mano.
«Andiamo, dai: non c’è più tempo da perdere; ci aspettano a lezione e sto facendo anch’io tardi per colpa tua .»
Di nuovo colpa mia.
Le sue dita si intrecciano alle mie con quella passione travolgente che hanno solo i legami proibiti.
Il mio cuore si agita come impazzito con la stessa felicità di quando mangio il gelato al cioccolato che mi piace tanto.
La stessa sensazione di pienezza.
Lui però non mi riempie lo stomaco.
Ma il cuore.
Eppure la serotonina che mi trasmette è la stessa che sento.
Immagino che vengano attivati gli stessi neurotrasmettitori, dopotutto.
Lui è il cibo del mio cuore sempre vuoto.
Sempre pronto a saziarmi.
A riempirmi.
E io capisco, con quel tocco, che in fondo, un po’ mi ha perdonata.
Non mi lascia il tempo di ammirarlo che mi trascina via con sé per mano.
La stessa mano che lo toccava e che aveva rinnegato poco prima.
Ma non ci faccio caso e in cuor mio lo perdono per le sue brutte parole.
La fossa si apre davanti a noi.
Un respiro trattenuto ci travolge.
È come se la pietra vivesse.
Come se avesse atteso per secoli quel momento.
Il momento in cui avrebbe preso le nostre anime.
Temporaneamente, sì.
Ma le avrebbe prese comunque per cibarsene.
Forse anche quella fossa viva ha il suo dolore, come il mio.
Un po’ siamo simili.
Dentro di essa c’è solo tenebra.
Un ventre che non promette nascita… ma metamorfosi.
Azrael si avvicina per l’ultimo saluto.
Appoggia una mano sul bordo e pronuncia, a bassa voce, parole in una lingua che non conosco.
Una preghiera?
Un incantesimo?
Non so, non lo capisco.
Ma mi fido di ciò che fa senza pormi altre domande.
Poi mi dà un bacio sulla fronte.
«Non temere la morte, Nym. La morte è solo un non esserci. Quando c’è la morte non ci sei tu. E quando non ci sei tu non c’è sofferenza. Devi temere piuttosto la vita quando non sai chi sei, quando la vivi come fai tu: con tutte queste tue paure inutili»
Mi dice quelle parole per confortarmi, ma non mi rassicura affatto.
Anzi, il mio cuore batte più veloce.
E l’ansia mi avvolge del tutto.
Perché lì dentro potrei davvero morire.
Morire e non conoscere mai l’amore.
Morire, senza mai essere toccata.
Deglutisco.
E mi stringo al braccio di Sethar.
Poi, senza mai lasciarlo, mi lascio cadere nel vuoto insieme a lui.