
Sethar si risveste in silenzio, ricomponendosi; come se quel gesto potesse rimettere di nuovo in ordine tutta la sua vita.
Come se l’atto stesso di mettersi dei vestiti addosso, in maniera così ordinata e impeccabile, fosse abbastanza per cancellare in un istante ciò che abbiamo appena fatto; rispedendo al passato tutte quelle emozioni che lui ormai trova scomode, fuori posto.
Inaccettabili.
Ogni piega sistemata del vestito è un modo per aggiustare con un solo tocco ciò che prima è stato disordinato.
Non razionale…
Come non è lui.
O come pensa di non essere.
Rinnegando sempre quello aspetto di sé.
Si sistema per cancellare ogni crepa nella sua apparente vita perfetta.
Ogni bottone che richiude è un sigillo per mettere fine sul nostro peccato appena consumato.
E che ora è stato dimenticato…
Da lui.
Perché io invece non l’ho fatto.
Non potrei mai dimenticare quel momento insieme: io lo custodirò per sempre come il più prezioso tra i ricordi.
Ed è per questo che io non mi sistemo, ma invece rimango così: nuda per la trasparenza del mio abito, bagnata, e col peso greve della vergogna che mi avvolge come un sudario.
Perché non voglio dimenticare quel piacere che lui mi ha dato.
Anche se è stato interrotto.
Anche se per lui non è stato importante.
Quel tocco che lui ha impresso sulla pelle per me è stato qualcosa di speciale: un seme nato da qualcosa di impuro e che adesso germoglia dolore nel mio cuore.
Un godimento che ora è contaminato dall’ombra del rifiuto.
Il suo.
Poteva essere un fiore, che nasceva in questo luogo fatto di morte, come il più bello tra i miracoli; invece è stato solo qualcosa di marcio come ogni cosa qui dentro.
Eppure io ci credevo in quella magia: che il nostro sentimento sarebbe potuto sbocciare anche in un posto come questo.
Invece ora vorrei solo piangere…
E così lo faccio.
Ma non asciugo le mie lacrime.
Lascio che l’aria fredda mi morda.
Lascio che il buio mi sfiori come se avesse mani per toccarmi.
Lascio che mi dilani, mordendomi con i suoi denti invisibili: spilli che mi pizzicano la carne facendomi rabbrividire fuori e dentro me.
Perché io, al contrario di lui, non voglio dimenticare.
Non voglio lasciarmi alle spalle quel ricordo.
Il ricordo del nostro amore.
Lui si porta indietro i capelli, si rimette in ordine, ancora e ancora.
Con un’esigenza quasi ossessiva.
Ritornando a ciò che era, ciò che è sempre stato: immacolato.
Io, invece, sono travolta dal disordine che mi ha lasciato dentro; e so che, da questo momento in poi, io non potrò mai più essere la stessa.
Soprattutto con lui.
Perché ora che Sethar mi ha marchiata con il suo piacere, io sento di appartenergli per sempre.
E quel pensiero mi fa gelare il sangue…
Perché so di non essere ricambiata.
So che lui non prova lo stesso.
Ho freddo.
Ma non è per i vestiti zuppi, ma per la sua indifferenza glaciale che mi travolge.
Per quello che mi ha fatto.
Per il suo ennesimo rifiuto…
Per avermi lasciata insoddisfatta e senza neanche un po’ di godimento.
Ma non ci penso.
Cerco di distrarmi.
Adesso ho un’altra questione da risolvere…
Quella del fantasma!
Così mi spingo in avanti, a passi spediti, perché ho bisogno di chiarire con quello spettro irrispettoso che ha osato ingannarmi con la sua faccia tosta, gettandomi nel fiume.
Lo spirito non si nasconde; non mi teme.
Anzi, ha sempre addosso per me quegli occhi vitrei e giudicanti di prima.
Quello sguardo che mi infastidisce, e che mi fa perdere le staffe.
Perché mi spinge a chiedermi…
Perché mai dovrebbe giudicarmi in quel modo?
Dopotutto, lei era una donna incinta.
Avrà fatto anche lei del sesso in vita sua, no?
Non accetto i suoi giudizi.
Così la affronto.
Decido di puntarle il dito contro per aggredirla, lanciandomi in una feroce invettiva.
«Ho capito le tue intenzioni, fantasma,» la accuso, urlandole contro, senza timori.
La voce mi esce come un colpo di frusta nell’aria immobile.
«So che mi vedi come il figlio che non hai mai avuto: ti circondi di bambini qui dentro per questo motivo, ma ciò che vuoi davvero è una figlia della mia età; ti ho capita, sai?»
La sua espressione si fa quasi dolce, un’ombra di malinconia si posa sulle sue labbra sbiadite.
Ma non cedo.
Non posso.
Non posso farmi intenerire da lei che mi ha plagiata più volte.
Quel yurei va rimproverato per le sue azioni meschine, e non va perdonato; quindi non mi lascerò manipolare per l’ennesima volta dai suoi modi ammalianti.
«Ti comprendo, ma non ti accetto.»
le sputo addosso tutto il risentimento che provo. «E sappi che non si dovrebbe mai cercare di tenere a ogni costo qualcuno stretto a sé soltanto perché si ama; perché tutto questo è sbagliato.»
Le parole escono dure, ma necessarie.
Lei mi guarda come se fosse commossa e realmente dispiaciuta per le sue azioni. Ma io mi sento solo presa in giro così proseguo con i miei rimproveri.
«Non tollero i tuoi atteggiamenti, yurei. L’amore vero non porta mai alla violenza: quello è solo possesso… una cosa sbagliata, meschina, inaccettabile e imperdonabile; tu questo devi capirlo.»
Il fantasma inclina la testa, un gesto lento e inquietante, come se non fosse d’accordo con me; come se disapprovasse le mie parole.
Poi un sorriso amaro si dipinge sul suo volto spettrale.
È strano, ma mi sembra di percepire i suoi sentimenti, e per questo provo per lei pietà.
Che sentimento strano è l’empatia…
Talvolta è più un difetto che un pregio, perché ti fa provare compassione anche per chi non se la merita neanche un po’.
Eppure c’è una cosa che mi tormenta…
Non capisco il perché del suo sorriso enigmatico.
Perché ha avuto un’espressione del genere?
Che sia per caso innamorata di me?
Che sia per caso gelosa di me e Sethar ed è per questo che mi ha buttata nel fiume?
Forse ha ragione Azrael quando dice che i fantasmi invidiano gli esseri umani perché noi amiamo e respirano ancora.
Tutte queste domande finiranno per farmi impazzire!
E infatti mi metto le mani in testa per la disperazione, agitandomi, sbattendomi i pugni addosso perché non ci sto capendo più nulla!
Mi chiudo in me stessa per riflettere, cercando di trovare una spiegazione razionale alla cosa.
Il silenzio cala di nuovo, più pesante di prima, e io e il fantasma veniamo colte entrambe da uno strano imbarazzo.
Tuttavia, questo silenzio, così totalizzante e intimo, viene d’un tratto interrotto da passi celeri e decisi — ma allo stesso tempo posati — che provengono alle mie spalle, e che riconoscerei tra milioni di altre persone.
I suoi.
Lo riconosco ancora prima di voltarmi.
La sua voce tuona nell’aria come un fulmine a ciel sereno che si staglia violento squarciando il manto celeste e manifestando così la sua luce.
Eccolo che ritorna…
Con la sua aurea argentea.
Il mio cavaliere scintillante pronto a proteggermi dai pericoli!
Avanza impavido verso il fantasma, protettivo e imperioso, pronto a sfidare l’oscurità solo per me.
«I patti non erano questi, spirito» la richiama alla ragione, tracotante e altezzoso. «avevamo detto che te l’avremmo lasciata vedere, a patto che tu non avessi più cercato di traviarla… o di gettarla nel fiume.»
Sethar si frappone tra me e la donna come un muro fatto di carne e ossa, impedendomi di vederla, di comunicare ancora con lei.
Poi mi sfiora appena un braccio come per rassicurarmi, per dirmi “stai tranquilla, ci penso io a te”, tenendomi dietro sé per farmi stare al sicuro: ancora una volta spunta il suo atteggiamento da eroe senza macchia che mi fa arrossire e battere il cuore.
Il suo tocco lieve mi brucia ancora, anche se so che tra noi è ormai tutto finito: ora che ha soddisfatto i suoi piaceri usando il mio corpo come più gli aggradava.
Ora che è vestito.
Lo vedevo chiudere ogni bottone e nel frattempo pensavo che con quel gesto lui stava scegliendo di chiudere anche con la nostra storia, relegandola a qualcosa di passato che non sarebbe mai più tornato; ritornando quello di sempre: l’uomo che si nasconde dietro a una maschera di controllo e purezza pur di sentirsi incorruttibile.
Senza macchia.
Sì, la verità è questa: lui mi ha già rimossa.
Eppure, io lo sento ancora addosso…
Sulla pelle umida, ma che arde ovunque.
Sento ancora la sua presenza su di me come quella fiamma divina che le grandi acquee non posso spegnere; mentre l’eco del suo rifiuto mi pesa più del tessuto che ho addosso, e che si è fatto più greve per via dell’acqua che lo fa pesare.
L’abito è pesante come il peccato che mi porto addosso per colpa sua.
Quindi cerco di distrarmi.
Di non pensarci più.
E mi focalizzo di nuovo sul fantasma, per non farmi travolgere da quei problemi che, altrimenti, mi farebbero solo stare male.
La yūrei resta immobile.
Una statua scolpita di un’eterna sofferenza: lo si vede dai suoi occhi stanchi. Bella e decadente come una poesia di un poeta maledetto.
Ma io la vedo per ciò che è davvero: un dolore imbalsamato in un corpo d’ombra che fluttua senza sosta e senza mai trovare pace in se stessa.
Vorrei poterle tendere una mano, spezzare quel cerchio di tormento.
Ma non so come fare.
Perché non la comprendo.
Sbircio il suo volto di porcellana crepata, senza lasciare trasparire la compassione che mi stringe il cuore quando la guardo.
Il suo sorriso si spegne, soffocato dalle aspre parole di Sethar, ma i suoi occhi continuano a brillare per qualcosa di insondabile.
Qualcosa che voglio scoprire.
Disprezzo? Dolore? Rimpiato?
Non so capire la sua reazione.
O forse il suo è solo un amore talmente disperato per me da sconfinare nella follia?
Forse non c’è una spiegazione al suo agire e mi sto solo scervellando troppo.
Forse, talvolta, l’amore ti spinge alle cose più irrazionali e sconsiderate.
La guardo con compassione, perché, sì, anche se lei mi ha fatto del male, io mi accorgo di quanto patimento ci sia in lei e la cosa non mi lascia indifferente.
Il suo dolore, qualunque esso sia, mi commuove; e voglio ancora aiutarla, anche se probabilmente non saremo mai più amici.
Così le rispondo ancora, mantenendo però stavolta un certo garbo, pur rimanendo in guardia dai suoi atteggiamenti seduttivi.
«Mi dispiace, spirito, per ciò che ti è successo in vita,» dico, stringendo le braccia attorno al mio petto per contenere la pietà che provo. «Ma non possiamo più vederci. Mi dispiace. Non possiamo più essere amiche; certe cose sono semplicemente imperdonabili, capiscimi…»
Le sue labbra si dischiudono, forse per protestare. Ma io non le do il tempo di plagiarmi ancora, perché so che le sue sarebbero soltanto delle dolci manipolazioni avvolte dal suo consueto vittimismo.
Ormai ho capito il suo carattere.
Per questo insisto con le mie prediche sprezzanti, ma compassionevoli nei suoi riguardi.
«Sì, un amore così… un affetto così… io non lo voglio, fantasma. E, in verità, non dovrebbe mai volerlo nessuno; perché tutto ciò è semplicemente sbagliato.»
Protesto, decisa, facendo valere le mie ragioni.
Una fitta nebbia azzurra la avvolge: gli altri fantasmi le danno adesso conforto per la frustrazione causata dal nostro litigio che, a quanto pare, sempre averla sconvolta molto, ferendola nel profondo.
Forse è solo una tipa molto permalosa.
Odio litigare, ma a volte è necessario per difendersi quando qualcuno non ti rispetta: a volte è necessario chiudere delle porte, anche quando si prova qualcosa di speciale per qualcuno.
«Addio, yurei.» la saluto, senza rimorsi.
Forse per sempre.
Dandole le spalle.
E non mi volto nemmeno quando mi dirigo in direzione della mia casa, lasciandola lì, insieme agli altri bambini, suoi amici, a farsi compatire con i suoi atteggiamenti da vittima; anche se ha cercato di causare la mia morte più volte.
Insomma, non ho sensi di colpa per aver chiuso quel rapporto con lei.
E sto quasi per avviarmi per la mia strada, quando una mano si posa all’improvviso sulla mia spalla.
La riconosco dal tatto.
«Dovresti andare, Nym,»
Mi esorta Sethar, come se non sapessi già da me quello che mi occorre fare.
Ha la voce piatta, impassibile, immutata, e tutto questo mi infastidisce, perché mi ricorda ancora una volta quanto la cosa che c’è stata tra noi sia già stata archiviata da lui.
Il risentimento che provo per lui è incontenibile.
Trabocca da tutte le parti.
Perché gli uomini sono così diversi dalle donne quando amano: forse loro quando godono smettono di amare, al contrario di noi che invece ci innamoriamo proprio quando ci concediamo; e da qui nascono tutti i problemi.
Mi mordo le labbra a quel pensiero, e lo guardo con rabbia repressa, mentre lui dischiude le sue per un’altra esortazione.
«Farai tardi a lezione, Nym. Dovresti andare.»
La sua voce è inflessibile, priva di emozioni; ma io riconosco quella calma: è lo stesso atteggiamento che ha quando giudica gli altri sentendosi superiore per le sue impeccabili virtù morali.
Vorrei rispondere, ma non posso.
Perché lui mi guarda solo lì: dove mi ha marchiata.
Lo fa per condannarmi.
Per farmi sentire a disagio.
«E dovrai anche cambiarti, no?» Indica con la testa ciò che ha causato lui stesso con il suo piacere.
Mi guarda come se giudicasse non solo la macchia, ma anche la mia persona nella sua totalità.
Per questo il mio respiro si ferma.
Le sue parole sono un veleno amaro che fuori esce da una bocca che prima si è aperta a me soltanto per gemere dei baci che gli davo e che ora mi accusa soltanto.
Ma lui non si ferma con la sua predica; con la sua perfidia.
Perché continua imperterrito.
«E non farti vedere da nostro padre così, altrimenti capirà.. sai, com’è quel vestito è indecente.»
Un brivido mi corre lungo la schiena.
Per qualche motivo quel tono mi fa sentire sporca.
inadeguata.
Il suo volto è quello di un giudice, non di uno che ha peccato insieme a me. E la cosa mi fa digrignare i denti per la rabbia.
Poi distoglie lo sguardo.
Non mi guarda più con la dolcezza di prima.
…Forse perché ormai è soddisfatto.
Poi mi scruta di nuovo, altezzoso.
Giudicante.
Come se fosse Dio.
E io l’abominio da rinnegare.
«Guardati.»
La sua voce è bassa, tagliente, sussurrata.
Lo dice con quel tono: calmo ma al contempo aggressivo.
Come quello dei sacerdoti dietro a un confessionale che dovrebbero solo purificarti l’anima dal peccato e che invece ti giudicano per i peccati che hai esposto a loro a cuore aperto: dopo esserti fidata.
«Hai idea di come sei ridotta?» mi deride.
Lo sguardo gli cade sulla stoffa bagnata.
La sua macchia.
Sotto il mio ventre.
Ancora umida.
Il suo seme.
La sua colpa.
Ma a quanto pare… il peccato è tutto mio.
«Come una Maddalena senza redenzione,» sputa con disprezzo, senza rimorsi, con quel ghigno maligno. «Ti sei lasciata toccare come una prostituta nei cortili del Tempio.»
Lo dice come se mi stesse leggendo addosso una lista di accuse.
Come se fosse un inquisitore che sputa addosso alla strega prima di mandarla al rogo.
«Sai chi mi ricordi?» Si avvicina di un passo.
Solo uno.
Abbastanza per farmi rabbrividire.
«Gomer. La moglie infedele del profeta Osea: la sgualdrina che si vendeva al primo passante anche dopo il matrimonio; chissa a quanti nel tempio hai dato piacere in questo modo davanti ai fantasmi; ecco perché ti piace venire qui: ci porti tutti gli uomini della nostra casata per farti marchiare addosso…»
Si passa una mano sul collo, sudato, con le vene in tensione; come per cancellare il sapore della mia bocca che ha baciato quel punto.
Poi indica ancora la macchia.
«Mi hai spinto tu a questo, puttana e demonio. Tu, con i tuoi occhi d’inferno e la bocca da serpe.
Volevi uccidere la mia purezza con le tue cosce spalancate.»
Mi trema la gola.
Vorrei parlare.
Ma ho vergogna.
Forse dovrei solo stare zitta.
Come mi hanno insegnato a fare in questi casi.
Il suo sguardo si fissa sul mio collo, dove prima pulsava il suo desiderio e, lo so, sta provando vergogna.
Per questo esplode ancora di rabbia.
«Mi hai guardato come Eva guardava il frutto proibito. Mi hai tentato come il serpente, poi mi hai tradito come Dalila con Sansone, cercando di privarmi della forza che Dio mi ha donato: i miei poteri. E lo hai fatto con i tuoi inganni di donna perversa, come una filistea impura! E ora guardati…»
Muove la testa verso il mio ventre e la seta inzuppata.
«Ti sei presa la mia vergogna addosso e ti vanti pure di portarla; non hai nemmeno cercato di pulirti.»
Ride di disprezzo per me.
Ancora quel sorriso malvagio.
«Come se il seme che ti ho lasciato addosso fosse un’onorificenza; sei proprio una puttana perversa e ti piacciono queste cose.»
Mi morde il cuore, e neppure lo sa.
O forse sì. Forse lo fa apposta.
Forse mi ferisce per farmi capire che ho esagerato, e che certe cose non vanno fatte.
Forse lo fa per me.
per correggermi.
Per riportarmi sulla retta via.
Ma in questo modo mi ferisce.
Con una mano stringe la fibbia della cintura, mentre con l’altra aggiusta il colletto ormai chiuso per sincerarsi che tutto sia in ordine, al suo posto.
«Dovresti ringraziarmi per non averti presa del tutto.
Per non averti penetrata come meritavi.
Perché almeno così… ti resta una parvenza di purezza. Una macchia si lava. La lacerazione, no.»
Sono immobile.
Come un’eretica giudicata dal tribunale dell’inquisizione: torturata dalla sue parole.
«Ma forse tu sei già lacerata: forse ti sei data agli altri giovani del tempio; o forse a quel vecchio del capo che protesta ogni volta che nostro padre ti abbraccia; ecco perché è così geloso di te! Scommetto che hai corrotto anche lui infilandoti tra le tue cosce il suo cazzo di vecchio malato per quanto sei depravata…»
Non so cosa provare in questo momento…
È come se la mia anima uscisse dal corpo per non provare tutta quella violenza verbale che mi sta riversando addosso.
Così mi annullo e lo lascio sfogare, sperando che così si calmi.
So già a cosa si riferisce: parla di Padre Saul, lo so. Quel vecchio prete, capo della casata, che nostro padre mi ha impedito di vedere per i suoi atteggiamenti inappropriati nei miei confronti.
Ma cosa c’entra adesso questo fatto?
Come può insinuare una cosa del genere?
Lui, mio fratello… che ora si fa mio giudice.
Il mio carnefice in tonaca bianca.
Mi tratta come se fossi diventata la personificazione di quella macchia nel mio vestito: ciò che sporca l’idea della sua perfezione.
Per questo mi odia.
Lui, che prima mi ha portata in alto… e ora mi inchioda come fossi la croce su cui lavare tutti i suoi peccati.
Ma nonostante questo, io lo amo.
Lo amo anche così.
Anche adesso che mi guarda come Sodoma: la città distrutta col fuoco da Dio per la sua lussuria.
E io…
Io non so se me lo merito.
Tutto quell’odio.
Ma lo accetto lo stesso.
Perché lo amo.
Io lo amerò sempre, nonostante tutto.
Così mi volto, in direzione della mia camera, perché so che non posso più restare qui con lui…
Non adesso che è arrabbiato e avrebbe soltanto male parole da dirmi. Tuttavia, io so che perdonerò sempre Sethar, anche se mi maltratta.
Lo perdonerò perché lui è il mio eroe senza senza macchia ma anche il mio tormento vestito di giudizi e castigo…
Lo odio per quanto bene sa ferirmi con il suo gelo di indifferenza o la sua pioggia infiammata di accuse.
Lo odio perché non riesco a odiarlo davvero.
Lo odio perché lui è il mio inferno: fiamme e gelo, come lo descrive Dante.
Faccio un passo indietro in direzione del tempio, da dove sono venuta, perché so che tanto è inutile conversare con lui, dato che ha tutta quella collera addosso nei miei confronti; e in ogni caso, oggi ho il mio dovere da svolgere: devo andare a lezione, quindi mi incammino con passo svelto verso casa.
Lui non mi guarda più.
Ma io sì.
Mi volto più volte a fissarlo per sincerarmi che stia bene.
E dentro di me qualcosa muore.
Forse è la speranza di quel futuro insieme.
… Di quel fiore che poteva germogliare, ma che ora, probabilmente, non lo farà più.
Adesso che l’ho deluso.