
La prima regola del mio mondo è semplice: se un demone ti guarda… non ricambiare.
La seconda?
Non innamorarti mai di loro.
La terza?
Se lo fai, sei fregata.
Me l’hanno detto fin da bambina: i demoni non hanno cuore— e per questo vogliono il tuo.
Non in senso metaforico.
Ma letteralmente.
Te lo strappano dal petto.
Ma per farlo…
devono prima farti innamorare.
Sono cresciuta con questa verità assoluta: al mondo esiste il bene e esiste il male.
Noi esorcisti siamo il bene.
Loro, il male.
Non ci sono zone grigie.
Non esistono eccezioni.
O almeno…
così mi ha sempre insegnato mio padre.
Azrael.
L’uomo che mi ha salvata dall’abbandono.
Dalla mia condizione di orfana.
Che mi ha cresciuta come se fossi davvero sua figlia.
E di questo gliene sarò sempre grata.
Per la vita.
Mi ha accolta senza discriminazioni nel suo tempio. Nella sua casata di monaci e sacerdotesse esorcisti.
Ho un debito infinito nei suoi confronti.
Lui è l’uomo che ha coperto la mia diversità agli occhi degli altri, insegnandomi tutto ciò che c’è da sapere sugli esorcismi, e su come possedere un demone.
Lo ha fatto per farmi sentire uguale a loro.
Per non farmi sentire a disagio.
La diversa.
La pecora nera in mezzo a tante bianche.
Perché è così che sono tutti qui dentro: candidi.
Nei capelli, nella pelle e negli occhi.
A differenza di me.
Che sono tutta nera.
Nera come ciò che è oscuro e infernale.
Com’è il peccato.
Così ho cercato di compensare: mi sono impegnata nell’arte degli esorcismi.
Faccio di tutto per dimostrare di saper fare qualcosa.
Per ritenermi degna di stare con loro.
Azrael, nel tempo, mi ha spiegato tutti i suoi trucchi.
Una volta mi ha anche detto:
«È l’arte ciò che doma l’oscurità».
Ed è per questo che i demoni sono attratti dalla musica.
Temono che una nota gli ricordi cosa vuol dire commuoversi.
E da allora ho fatto tesoro di quel consiglio.
Mi sono esercitata in tutte le arti, e ho capito che l’esorcismo non passa sempre per la violenza.
Passa per l’anima.
Un suono di corda e il demone viene attratto.
Due suoni e si piega completamente a te.
Tre suoni e può persino piangere e commuoversi.
È questo il vero potere della musica: scuoterli da dentro.
Anche se non hanno un cuore.
Perché i demoni hanno bisogno di questo: sentire.
Provare emozioni forti.
E una volta che si emozionano, solo in quel momento, tu puoi imprigionarli.
Per sempre.
Farli tuoi.
O, almeno, finché lo vuoi tu.
Fisso il mio shamisen, il mio compagno di vita silenzioso.
Ogni mattina, prima di affrontare il mondo, poso le dita sulle sue corde come se fosse una piccola preghiera.
Lo faccio per esercitarmi in vista di un futuro scontro con il nemico.
In vista di quell’eterno duello tra bene e male.
È un oggetto antico.
Crepato, ma vivo.
Respira con me.
Sussurra.
È fatto di un legno sacro, quasi mitico.
Noi lo chiamiamo il legno del roveto ardente.
Lo stesso che Mosè vide consumarsi tra le fiamme senza bruciare, quando Dio, per la prima volta, decise di farsi voce e di comparire a lui.

Il corpo invece è iridescente, con dei glitter scintillanti su uno sfondo blu notte.
Come in una notte limpida piena di stelle.
Noi chiamiamo questo materiale: pelle di angelo caduto.
Anche se non abbiamo davvero scuoiato un angelo!
È solo il materiale a chiamarsi così.
Il mio shamisen non parla.
Ma è speciale.
E ogni volta che lo suono, sento come se una presenza arcaica si svegliasse tra le venature del legno.
Me lo ha donato mio padre.
L’unico regalo che mi abbia mai fatto.
Non esiste un secondo oggetto al mondo che abbia toccato il mio cuore allo stesso modo.
Con lui ho imparato a sedurre l’oscurità.
A domarla.
A farla inginocchiare.
Sono diventata brava.
Brava a cantare e suonare per ghermire il male.
Brava a fingere, brava con gli esercizi, brava a essere quella che non sono.
Ma non perché mi appassioni davvero la musica.
Lo faccio solo per guadagnarmi un posto in questa casata: la Casata del Sangue Vivo.
La più antica. La più devota.
La più bianca.
Bianca nei capelli.
Nella pelle.
Negli occhi.
E poi ci sono io.
L’orfana.
La straniera.
Quella dagli occhi neri.
Quella che non sarà mai accettata per quello che è.
Me ne accorgo dal loro continuo bisbigliare alle mie spalle.
Cercano di non farmi pesare la mia diversità.
Ma nel profondo so che non mi hanno mai accettata. Per questo, un giorno, voglio dimostrare a tutti di essere degna.
Di essere alla loro altezza.
All’altezza della mia nuova famiglia.
Questa setta di esorcisti che sta lentamente perdendo potere nel regno dell’occulto, ma che scommetto che un giorno saprà farsi valere dalle altre casate.
Come io saprò farmi valere in mezzo a loro.
Non mi fanno pesare la mia diversità apertamente, non me lo dicono in faccia. Eppure io so che loro non mi accettano.
Mi trattano da pari, mi dicono “non sentirti una straniera”, ma io so che non è così che mi percepiscono.
Ma come posso non sentirmi un’estranea se le differenze sono così evidenti?
Anche adesso, ora che mi guardo allo specchio, non faccio altro che sentirmi strana.
Perché tutti loro nascono con occhi bianchi come la purezza incontaminata.
Sono anime pacifiche, tutte pregne di disciplina monastica.
E io?
Una macchia nera nel loro candore.
Ciò che vedo nel riflesso dello specchio non mi piace.
Perché io sono l’orfana che è stata accolta, non quella nata in questo posto.
Sono la diversa.
Non pura come loro.
Sono quella dagli occhi neri come il peccato.
Quella che non è nata con i loro poteri speciali.
Così, ogni giorno, prima di alzarmi dal letto, metto delle stupide lentine bianche, color latte, per sembrare una di loro.
Per sentirmi… a casa.
Uguale.
Lo faccio anche adesso.
Prima di affrontare tutti gli altri.
Per dimenticarmi di essere diversa.
Funziona?
No.
Ma almeno ci provo.
Mi fisso nei miei occhi sbagliati mentre rimetto con cura la lente bianca.
Una lacrima — o forse una goccia d’acqua rimasta — scivola sull’iride nera che si trasforma in quella dal colore ottimale.
Una bugia ben riuscita.
Un inganno…
Perché la verità è che, anche così, non mi sento figlia di nessuno.
Non assomiglio a nessun altro qui.
Né nel corpo né nell’anima.
Non ho un posto nel mondo.
E vorrei tanto trovarlo.
Mi spazzolo un po’ i capelli per cercare di mettere ordine nei pensieri.
Districo i nodi come se potessi sciogliere con un gesto i problemi della mia vita e la mia perenne crisi di identità.
È triste la vita di chi non trova un suo spazio, quindi in questo modo — attraverso delle stupide lentine colorate — metto una pezza sopra a questo problema gigantesco che, immagino, mi tormenterà per tutta la vita: il fatto di non appartenere a nessuno.
Questo senso di non appartenenza a niente crea come una sorta di voragine nel mio petto.
E nel mio cuore.
Io lo chiamo il mio vuoto esistenziale.
Quella voragine che da sempre cerco di riempire con qualcosa.
Ad esempio l’amore.
In qualsiasi forma.
Anche disfunzionale.
… non riuscendoci però mai.
Fisso la foto della mia famiglia adottiva e mi rendo conto, ancora una volta, che loro non sono parte di me.
E la cosa mi fa rabbia.
Sento gli occhi brillare, come se qualcosa dentro di me volesse uscire.
Eppure lo trattengo.
Ancora oggi mi pesa non poter essere uguale a qualcuno.
Guardare un genitore negli occhi e dire:
“Sì, io sono te”.
“Sono tua”
“E tu sei mio”
“Sono ciò che tu hai creato”
… Bè, questa cosa io non potrò mai provarla.
Perché i miei veri genitori mi hanno abbandonata…
Evidentemente, non mi volevano.
E questa mia nuova famiglia è completamente diversa da me.
Per questo digrigno i denti.
Li fisso nei loro occhi bianchi pieni di luce e buone intenzioni, e una sensazione di malessere mi pervade tutta.
Perché loro sono bianchi e io nera.
Mi ripeto ancora.
E ancora.
E ancora…
Come in un loop da cui non posso sfuggire.
Prendendo a pugni il cuscino per cercare di domare la rabbia.
Perché no…
Non lo accetterò mai.
Neanche oggi al mio risveglio.
Non posso farlo.
Perché loro sono tutti i riflessivi, mentre io sono una miccia pronta ad esplodere.
E quando guardo Azrael così perfetto, così impassibile, mi sento ancora più difettosa.
Perché io sono tutto tranne che tranquilla.
Così do un altro pugno al cuscino…
Azrael mi ripete sempre che devo imparare a controllare i sentimenti.
Perché “la calma è la virtù dei forti”.
Ma io non lo ascolto.
Faccio di testa mia.
Immagino che, date le circostanze, sarò una debole per sempre.
Anche se lo ammetto: ci vuole una certa forza interiore per rimanere sempre calmi anche quando qualcuno ti fa arrabbiare.
… O quando tutto nella tua vita non sembra andare nel verso giusto.
Quando provi invidia per gli altri.
E quando odi te stessa.
Ma…
Non ci riesco.
È più forte di me.
Perché io sono fuoco.
Istinto.
Rabbia.
Sono quella che ogni mattina prende a pugni il cuscino per la sua incapacità di darsi una calmata.
E nel nostro mestiere, quello dei sacerdoti esorcisti, questo non va bene.
Per esorcizzare devi essere freddo, lucido, imperturbabile.
Perché basta un errore, una distrazione, un’emozione di troppo…
E un demone ti possiede.
Per poi ridere di te quando ti conduce alla rovina.
È questo ciò che fanno gli esorcisti: dominare i demoni.
Ma per farlo, devono controllare le emozioni.
Per questo Azrael mi ha sempre tenuta lontana da loro.
Non mi ritiene pronta.
Mai una missione vera.
Solo teoria e simulazioni.
Dice che vuole proteggermi.
Io penso che abbia paura.
E forse ha ragione ad averne.
Perché i demoni non cercano solo il tuo corpo.
Cercano la tua rovina.
E se sei una sacerdotessa esorcista e perdi la verginità, perdi anche i poteri.
Loro lo sanno.
E ci giocano.
Si divertono a vedere la gente distrutta.
Sono dei sadici bastardi!
Loro ci odiano.
Noi odiamo loro.
È un equilibrio perfetto.
Sono grata a mio padre per avermi protetta da loro.
Eppure… qualcosa è cambiato di recente: vuole che da quest’anno io frequenti il College dell’Occulto.
Un college pieno di matti, frequentato da tutte le creature mistiche provenienti da ogni parte del globo: demoni, angeli, creature marine e della notte…
Tutti convivono insieme sotto lo stesso tetto.
Più o meno pacificamente.
Ma per quale motivo vuole che io vada proprio adesso che ho 18 anni?!
La cosa mi lascia perplessa.
Noto la divisa che mi aspetta dentro l’armadio socchiuso, e una fitta di terrore si fa sentire nelle braccia e nelle gambe.
La cosa non ha senso…
Prima mi impedisce di avere a che fare con loro, mentre adesso mi butta tra le braccia del nemico senza battere ciglio.
C’è qualcosa che non torna…
E devo scoprire cosa c’è sotto.
Mi giro nel letto, poi mi alzo di scatto per chiedere al mio poster di Damiano dei Maneskin un parere a riguardo.
Gli sorrido e ammicco un po’, sensuale.
Come se lui fosse vivo.
Lui ovviamente non risponde.
Non reagisce.
Dopotutto non può, dato che è soltanto un foglio di carta appeso a muro.
Allora approfitto dei suoi enigmatici silenzi per baciarlo intensamente — e contro la sua volontà — sulle labbra, come faccio tutte le mattine appena mi sveglio.
Metto anche un po’ di lingua.
Perché non guasta mai.
Anche se, diciamo, che questa non è una cosa che le sacerdotesse esorciste dovrebbero fare.
Ma io lo faccio lo stesso.
Una piccola eresia quotidiana.
Una dichiarazione di guerra al celibato che mi hanno imposto.
Perché fin quando nessuno mi scopre, immagino che la cosa vada bene così, no?
«Nym, sbrigati che è tardi!»
La voce di Azrael arriva dal piano di sotto.
Ma io lo ignoro e mi rituffo ancora nel letto morbido, dove ogni preoccupazione si annulla; nascondendomi dal resto del mondo, ancora per un po’.
Perché non voglio andare.
Perché loro sono il male.
E io il male lo rinnego.
Dannati demoni…
non condividerò con voi la mia stessa aria!
