
Davanti a me fluttuano quelle figure eteree, vestite solo di immacolati abiti bianchi, e che si avvicinano fluttuando con la lentezza tipica dei morti.
I loro capelli, lunghi e di un nero intenso — tipici degli yurei — cadono disordinati, incorniciando volti pallidi e inespressivi, privi di qualunque soffio vitale.
Tuttavia, nei loro occhi, luminosi come cristalli scintillanti, scorgo ancora un calore profondo, un affetto silenzioso che rompe quell’immagine che ho sempre avuto dei morti come esseri privi di sentimenti.
Io li guardo; e mi sembrano tutt’altro che spenti al loro interno, per il loro modo di essere affettuosi nei miei confronti.
Mi sembrano pieni di emozione, nonostante l’assenza di un battito nel cuore.
La donna è bella come un sogno ad occhi aperti.
È una giovane adulta strappata alla vita forse fin troppo prematuramente: deve essere stato per forza un delitto passionale a toglierle il soffio vitale.
Perché, se fossi stata un uomo, sarei di certo impazzito di gelosia se per caso l’avessi vista tra le braccia di un altro.
Avrei fatto di tutto per averla solo mia.
Lei è quel tipo di bellezza che spinge gli uomini a cose raccapriccianti e indicibili, a causa di questa sua innata sensualità che invade ogni fibra del corpo alla sola vista di così tanta perfezione sublime.
Una bellezza che corrompe gli animi.
Corrompe persino me che non ho mai avuto in tutta la mia vita una simile attrazione nei confronti di una donna.
Per lei, in sintesi, sarei sicuramente diventata il protagonista maschile di un dramma coreano in 32 episodi con finale tragico.
Spoiler: io muoio, ma lei comunque sposa l’altro.
Perché io sono in una stagione filler e lei è la protagonista della serie
Che tristezza…
Ha il fascino della donna impossibile.
Un po’ alla Fujiko Mine che ti spezza il cuore.
Ripetutamente…
Dite che c’è qualcosa di strano in questa mia strana attrazione per una persona che nemmeno respira?
Vabbè, non facciamoci troppe domande.
Mi fissa.
Con la bocca leggermente aperta.
Occhi lucidi.
Un altro secondo e giuro che la bacio.
Ha un volto che sembra fatto di porcellana antica, come quei pregiati vasi Ming che si vedono nei musei: bianca ovunque e candida, come la soffice pianta di cotone, contornata poi da attraenti dettagli in blu cobalto per le ombre che questo regno le ha donato.
Mi guarda come se fossi la risposta a tutte le sue domande.
Mentre io vorrei solo sapere che shampoo usa.
Ha letteralmente i capelli più belli che io abbia mai visto.
Non so in che in rapporti siamo, ma sembriamo essere molto intime.
E poi quegli occhi…
Occhi vasti e profondi, intensi, simili a laghi fatti di cristallo, per quanto sono chiari: trasparenti, vitrei… e un sorriso lieve, sospeso tra la dolcezza e la tristezza: è felice di vedermi, ma al contempo preoccupata per qualcosa.
Posso avvertire la sua sorpresa e lo stupore.
La sua espressione mi incanta.
No…
Non sono lesbica.
Penso.
Credo.
Cioè…
Un po’ ne dubito vedendo questo fantasma dagli zigomi alti e il vestito bianco semi trasparente.
Chiamatemi Saffo.
Devo esserle mancata; qualcosa mi dice che mi stava aspettando. E forse ha quell’espressione in volto perché è delusa da ciò che mi ha fatto in passato.
Sembra pentita…
Dunque la perdono.
Adesso il mio problema non è la lussuria in generale.
Ma la necrolussuria selettiva per le ragazze misteriose dai capelli neri.
Mannaggia!
Tipo Sadako ma sexy.
Dunque Bye bye Sethar…
Anni di amore predestinato spazzato via da un paio di seni sodi.
La donna ha in fronte la tipica fascia bianca dei morti — il hitaikakushi — simbolo della purezza del defunto; quel copricapo triangolare che mi è sempre sembrato una mutanda che i defunti portano in testa.
Una cosa che mi fa sorridere in quel momento a quella vista.
Ma lei non si accorge delle mie prese in giro interne riguardo al suo abbigliamento.
Per fortuna.
Tiene le mani raccolte sul grembo, quasi a proteggere un segreto invisibile.
Forse vuole comunicarmi che era incinta quando è trapassata.
Magari prima ero fuori strada, quando sospettavo a un omicidio passionale, ed è stato questo invece a spegnerle la vita: un parto complicato.
Sta immobile, in piedi, accanto a un’altalena che oscilla lenta, da sola, sospinta da qualcosa che non si vede, ma che a quanto pare esiste.
Romantico, inquietante e… decisamente non l’ideale per un primo appuntamento immaginario che sto avendo nella mia testa con questo fantasma.
Ma ci accontentiamo.
Presumo che a spingerla sia la presenza di qualcuno che è restio a volersi palesare agli altri per pura o semplice introversione.
Probabilmente un bambino che gioca insieme ad altri bambini.
L’altalena si trova nei pressi di un cerchio concentrico di terra nera, perfettamente rastrellato, dove la donna probabilmente risiedeva immobile aspettando qualcosa che non ci è dato sapere…
Ma tutto mi spinge a pensare che stava aspettando proprio me, e per un tempo immensamente lungo, anche se non posso esserne certa.
Il giardino intorno a noi è avvolto da un silenzio inquietante, rotto solo dal lieve scricchiolio delle foglie che nascono già morte e che si infrangono al suolo, e nel fiume, come attratte da una morte ancora più morte.
Poi esse risalgono all’indietro, in un circolo di autodistruzione senza fine.
Un suicidio continuo.
La cosa mi fa stranamente ridere, anche se non dovrei: questo fatto delle foglie autolesioniste e suicide sono poetiche, sì, ma mi suscitano non poca ilarità; quindi soffoco una risatina che disturba i morti attorno.
Loro mi sgridano con male occhiate di dissenso, come per ricordarmi di dover rispettare i loro silenzi.
Faccio un inchino e mi scuso.
Poi volgo di nuovo lo sguardo in quel cerchio dove risiede l’altalena, perché attratta dal suono lontano di voci infantili: bambini allegri che ridono, giocano e scherzano in quello che suppongo essere un parco invisibile.
Ma nessuno appare.
Nessuno si vede.
Chissà che giochi staranno facendo…
Forse la donna ama stare attorno ai bambini perché non ha potuto averne uno suo.
L’uomo che le sta a fianco, invece, ha uno sguardo enigmatico, algido, ma che mi trasmette calma.
Qualcosa che mi rassicura nella sua essenza.
Sembrano tutti delle brave persone, molto uniti fra loro, anche se rimango sempre in guardia dalle loro intenzioni.
Meglio non fidarsi troppo.
Eppure, sento uno strano richiamo verso quelle anime, come se il mio cuore ai aprisse a loro man mano che procede il loro lento avanzare verso me.
Qualcosa mi dice che posso fidarmi.
Che non è mala gente.
E che loro sono miei amici.
Perché li riconosco come tali.
Ma non ho mai avuto un buon sesto senso quando si tratta di percepire le cattive intenzioni degli altri, quindi potrei sbagliarmi, come al mio solito.
Meglio stare in guardia.
Mi sento osservata.
Non da lui.
Ma dalla yurei col tanga in testa.
Mi volto e noto il suo sguardo fisso su di me.
Lo so che mi sta giudicando.
Perché ho i capelli crespi e un debole per le ragazze morte.
Per questo scuote la testa.
Ritorno a quel pensiero che avevo avuto poc’anzi. Ovvero al fatto che so di sapere, non so come, che lei — la donna — mi stava aspettando in quel punto.
Ne sono quasi sicura.
Perché qualcosa dentro me ribolle di questa verità.
Stava al parco, da sola, immobile, per un tempo per me dannatamente lungo, ma che per loro immagino sia irrisorio.
Mi stava aspettando chissà per quale motivo.
Forse per fare pace.
Forse per un altro scopo.
Non ci è dato sapere.
Credo che mi abbia atteso con un amore mai spento da quell’attesa; attendendo impaziente che mi palesassi all’improvviso da lei.
Forse i fantasmi non sono solo ombre nel buio: sono anch’essi esseri capaci di affetto e protezione, quando si ricordano chi sono. E in me nasce l’istinto di abbracciarli.
Perché un inchino non sarebbe abbastanza.
Perché solo loro possono capire ciò che si prova a esseri soli e senza origine.
Così mi avvicino, titubante, ma attratta come da una forza misteriosa.
Loro percepiscono le mie intenzioni pacifiche e avanzano accelerando: le loro mani non mi toccano, eppure sento il loro calore, anche se questo, lo so, non è materialmente possibile: è un calore immaginario, ovviamente, ma che mi sento ugualmente addosso.
Il calore dell’affetto.
Poi, dalla nebbia, ne emergono altri.
Tutti somiglianti.
Vogliono salutarmi a loro modo, fluttuandomi attorno, curiosi.
Per ciascuno provo qualcosa di unico, incomprensibile.
Forse ha ragione Azrael.
Le anime che subiscono traumi simili sono destinati a riconoscersi, anche se sono spezzati da vissuti differenti.
E anche se appartengono a mondi diversi: noi tutti cerchiamo inconsciamente negli altri parti di noi, come se fossimo frammenti dispersi di uno stesso specchio ormai rotto.
Pezzi sparsi nel mondo destinati a volersi bene quando si incontrano perché si riconoscono come simili, parti di un’origine comune.
La gente accumunata dallo stesso trauma è destinata a ricercarsi, a trovarsi, e infine ad amarsi.
È la coazione a ripetere: l’istinto crudele e sublime che risiede in tutti gli esseri umani e che ci spinge costantemente a cercare schemi già vissuti.
Persone simili a noi.
Noi stessi negli altri.
All’infinito.
Lo spirito donna mi guarda, come se afferrasse i miei pensieri.
E magari starà pensando:
“ma tu guarda questa disagiata: ha assolutamente bisogno di una terapia lunga e costosa all’istante”
Immagino che anche i fantasmi sexy giudichino gli altri.
Quella è una cattiva abitudine che neanche la morte può cancellare.
Letteralmente mio padre:
“non fidarti dei demoni, ti porteranno alla perdizione con la loro lussuria”.
Poi il genio mi manda nel giardino dei fantasmi davanti a questa tipa spaziale.
Della serie…
Papà, ma hai visto che fianchi?
Sto quasi per dichiararmi, quando lo yurei senza preavviso, attraversa il mio corpo.
Ripetutamente.
Un atteggiamento incomprensibile a cui non riesco a dare un senso.
Sento un brivido.
L’aria si fa gelida.
E il suo continuo avanzare mi fa indietreggiare perché passando lei produce una certa forza che mi sospinge all’indietro.
Le paleso la mia inquietudine per il suo comportamento, sgridandola.
“Smettila” le dico.
Ma lei torna.
Imperterrita.
Con quel movimento inopportuno.
Attraversandomi.
Di nuovo.
E poi ancora.
E ancora.
E ancora.
Non capisco…
Vuole toccarmi?
Vuole ferirmi?
Vuole… abbracciarmi?
Vuole attirare la mia attenzione?
Ok… sono un’esorcista.
Una vergine.
Forse sono una ragazza pura.
Ma se quella fantasma continua a passarmi attraverso così… giuro che mi converto alla necro-lesbianità.
Sono pronta per vivere con lei nella nostra bara arcobaleno
Le chiedo ” che cosa vuoi da me, spirito?”
Ma quel yurei è muto.
Non sa o non vuole darmi una risposta.
Si muove con un’urgenza che non è tipica della gente che abita le sue parti, e tutto questo mi confonde.
Ogni passaggio che fa sul mio corpo lascia in me un’eco, un ricordo, sepolto nella memoria.
Ho freddo e improvvisamente sento l’istinto di piangere, così lo faccio.
Lacrime salate mi attraversano il viso sfiorandomi la bocca, ma non capisco perché.
Forse sto rivivendo i suoi ricordi passati.
Forse è questo che vuole comunicarmi: vuole farmi sapere.
Vuole farsi conoscere.
E mi sorge lì, in quell’istante, un nuovo desiderio: adesso ho un motivo valido per voler andare al college dell’occulto.
Voglio trovare un modo per comunicare con questi fantasmi, dato che Azrael, e i membri della casata, evidentemente non ne sono capaci.
Forse in quello strano college imparerò qualcosa che mi permetterà di farlo. E non vedo l’ora di apprendere tutto il possibile per sentirmi ancor più legata a queste anime erranti e senza origine che sono proprio come me.
La figura femminile si avvicina ancora, riprendendo con i suoi movimenti strani.
Indietreggio.
«Scusa… ma che stai facendo?» bisbiglio.
Ma lei non parla.
Non può farlo, forse. O forse ha dimenticato come farlo.
«Che cosa stai cercando di dirmi?» chiedo ancora, confusa; pervasa dalla bramosia di sapere.
In quel momento, la benda che porta alla testa si sposta, e la mia attenzione ricade di nuovo su di essa.
Non riesco più a trattenermi.
«Senti spirito, sai che quel coso che hai in testa sembra proprio un tanga?»
Il fantasma sembra perplesso.
In qualche modo ho scoperto che lei capisce ciò che le dico.
Così continuo a provocarla.
La voglio stuzzicare.
Almeno così smetterà di importunarmi.
«Sì, sì…» le sorrido, ironica. «Sembra che tu abbia delle mutande bianche in testa!»
Lo dico a mezza voce, quasi per sdrammatizzare la tensione che si era appena creata tra di noi, sperando di placarla.
Le sue labbra si piegano in un sorriso.
Dolce.
Quasi umano.
La cosa sembra averla divertita.
Nasconde la sua ilarità dietro alla manica ampia della veste.
Un gesto che la fa sembrare ancora più giovane.
Viva.
Come una fanciulla frivola che ride a uno scherzo.
Ma si ricompone immediatamente, tornando seria, come se le sciocchezze fossero fuori luogo per lei in quel momento.
Allunga il braccio scarno, lentamente, e il suo dito sottile indica qualcosa oltre la foschia.
Il fiume.
La corrente nera che scorre al contrario.
Mi guarda di nuovo, e senza parole, inizia ad andare verso quella direzione.
Io la seguo, senza esitare.
Senza fare domande.
Senza paura.
Perché voglio fidarmi delle sue intenzioni.
Avrei preferito un bar con ramen e una birra per il nostro appuntamento, ma ok…
Let’s go.
Vai con la gita mistica tra i liquami della dannazione.
Scommetto che non voleva buttarmi quella volta nel fiume.
Ma che è stato solo un incidente.
Quel fantasma amorevole e simpatico non può avermi fatto una cosa simile e Azrael ha sbagliato tutto su di loro.
Non sono invidiosi di me.
Della mia vita.
Loro stanno bene qui dove stanno.
Sembrano felici.
Così la seguo senza più timore, perché ho quella strana certezza che il mio posto, per ora, sia solo accanto a lei, che mi capisce.
Giunti lì, lei si accuccia con meravigliosa grazia lungo il bordo del fiume.
La veste bianca si sporca della melma di quell’acqua stagnante, ma lei sembra non preoccuparsene troppo.
Poi, con un gesto ponderato, immerge la mano tra le onde nere.
La superficie si increspa appena, ma ciò che accade sotto quell’acqua mi sconvolge.
La sua bella pelle diafana, candida e perfetta, a contatto con quell’acqua putrida, si dissolve in silenzio come corrosa da un acido, mostrando lo scheletro al di sotto del braccio, fatto dapprima di carne.
Perché ha voluto mostrarmi quell’orrore?
Non comprendo.
Le dita le si sfaldano come i petali marci dei loti, rilasciando quel senso di benevolenza di mela mista a caramello, e presto non resta che lo scheletro sottile, chiaro come lucente avorio, che affiora dall’oscurità di quell’acqua.
Un’immagine straziante.
Oh. Ok.
Lei sta letteralmente perdendo pezzi.
Non è inquietante.
No, no.
Per niente
No…
Resto immobile, e con il fiato sospeso.
Ma lei non sembra soffrire.
Mi guarda.
Con quegli occhi spenti e profondi, ma carichi di una certa tenerezza nei miei confronti.
Come se volesse dirmi:
«Non ti preoccupare, va tutto bene, non sto soffrendo.»
Così mi rassicuro.
Poi, con un lieve cenno della testa, mi indica l’acqua.
Quel gesto sfugge alla mia comprensione, ma poi capisco: è un invito a scorgere l’arcano nascosto sotto la superficie d’inchiostro, dove l’acqua scorre lenta e al contrario.
Ergo, vuole mostrarmi qualcosa.
Qualcosa che sta là sotto di quel fiume.
Un segreto.
Mi avvicino, guidata dal suo sguardo modesto che mi osserva con tenerezza, ispirandomi fiducia, e che lega le nostre anime in un muto patto di amicizia, benevolenza e rispetto reciproco.
Così mi sporgo, come richiesto dallo spirito; attratta dal mistero che quel fiume cela.
Desiderosa di sapere cosa quel yurei vuole davvero comunicarmi.
Forse in quel fiume troverò la risposta sul perché lei sia morta prematuramente, così giovane.
Ma una spinta leggera si fa sentire d’un tratto dietro alla mia schiena: un soffio di vento gelido spinge il mio corpo fragile facendomi fluire verso quella pozza oscura.
Non faccio resistenza, colta come sono dall’imprevedibilità di quell’atto che mi coglie alla sprovvista: c’è solo il lento abbandono a quella corrente perennemente in movimento; e all’improvviso, mentre mi bagno e affogo, una nuova consapevolezza fiorisce in me, oscura e terribile come la materia stessa di quel fiume.
Io sono dentro.
E sono morta.
Diamine.
Io oggi volevo solo andare a lezione.