♰ Capitolo 15: Il Tempio Fushimi Inari ♰

ghghhghg

«Portami via da qui!» ripeto, forse con troppa enfasi.
Tanto che il mio bottone inizia a guardarmi e a rispondermi con atteggiamento aggressivo-passivo come se volesse dirmi:

“Calmati, ragazza, non sono mica il tuo Uber.”

Si agita tra le mani come se fosse indignato.

Deve essere un bottone che non ama prendere ordini dagli altri.

Poi una luce si accende.
E…
𝘽𝙊𝙊𝙈.

Uno scintillio.
Vento.
Un vortice.

Sento il mio corpo venire risucchiato come dentro a una spirale piena di colori fluo arcobaleno, come in un episodio di My little pony.

La sensazione, onestamente, non è proprio cinematografica come in quelle situazioni da cliché fantasy che si vedono nei film.

Fa un certo effetto, lo ammetto, finire dentro a un portale arcobaleno, ma devo dire che adesso ho un po’ di nausea.

Non scivolo dentro a quel buco, ma vengo come frullata.

E ripeto…
La cosa non è per niente piacevole.

Sembra piuttosto di essere come risucchiati da un gigantesco aspirapolvere cosmico.
Ma al posto dell’acqua qui c’è solo il non sense ad avvolgermi tutta.

Sì, è così qui dentro.
Questo è l’effetto che genera questo posto: confusione pura.

È come precipitare nel Samsara — ovvero il ciclo eterno delle rinascite — dove vedo mille versioni diverse di me stessa ma tutte deformate.

Sono sempre io, ma allo stesso tempo non lo sono.

Molteplice ma sempre me.

Le mie membra si allungano, si contorcono come la calligrafia impazzite di un ideogramma tracciato da un monaco zen ubriaco.

Intorno a me, fluttuano — i fiori tipici della morte — che diventano occhi, occhi che diventano stelle, e stelle che si spengono in frammenti di mandala infiniti.

Mandala infiniti che diventano… emoji.

Emoji che diventano schiaffi in faccia.

Insomma, nulla ha senso qui dentro.

Un po’ come la vita anche là fuori.

Tutto è così psichedelico e confusionario…

Come in un trip di acidi.
(Non ho mai provato, ma immagino che sia così).

Fonti: la varia cultura di film e serie tv che mi sono fatta per compensare il fatto che non parlo molto con la gente.

Eppure preferisco questo delirio alla normalità e alla mediocrità degli altri.

A ritrovarmi ancora una volta tra i miei parenti del Sangue Vivo.

Loro che mi fanno sentire peggio di una nullità, abbagliandomi con tutta quella loro luce bianca e accecante di purezza.

Qui almeno, tra una carrellata di cose senza senso, non capirci nulla è la prassi.
Qualcosa di normale.
Quindi è rassicurante.

Non come l’adolescenza.
Non come diventare improvvisamente degli adulti.

Essere forzati a essere responsabili.

Dove tutti ti chiedono di essere qualcosa, ma tu non sai nemmeno cosa vuoi mangiare per cena.
E forse, è per via di quel nuovo pensiero che succede quel che accade.

Perché si palesano davanti a me infiniti Koen ovvero quesiti filosofici apparentemente senza risposta tipici della cultura zen buddhista.

Si materializzano sotto forma di ideogrammi che si dissolvono e si trasformano in un vento aureo che si spargono ovunque sul viso e nel corpo, illuminandomi.

Quella polvere sussurra all’orecchio:

“Chi eri, prima che tua madre ti partorisse?”

La domanda mi lascia di stucco.
Come faccio a saperlo?

E poi ancora altro vento mi si sparge addosso con una nuova domanda:

«Sei davvero ciò che posti sui social?»

Strabuzzo gli occhi, perché la risposta può essere solo una, ovvero…

Ma io che cazzo ne so?

Mi fai domande difficili, bro filosofo sotto forma di kanji! E che si palesa a me sotto forma di voce dai glitter dorati!

No, seriamente…
tu voce che provieni dal nulla, mi chiedi di rispondere a domande veramente difficili!

E poi, io ho solo 18 anni!
Che ne posso sapere di tutto questo?!

Sono una persona che non sa ancora chi è, quindi, no, seriamente…
Che ne posso sapere, in questo momento, di rispondere alle tue domande filosofiche?

Mi arrabbio con me stessa.
Perché non so chi sono.

E quel vento aureo me lo ricorda.

Mi ricorda che io non ho un posto nel mondo.

Poi sento un altro bisbiglio. Un altro suono penetra nelle mie orecchie con un altro quesito esistenziale:

«Chi eri, tu, prima che ti assegnassero un username?
Prima che i like ti dessero un senso?
Prima che l’algoritmo decidesse chi dovevi diventare?»

Mi ripeto:
“Cosa?!”

Ma che cos’è?
La versione gen z di una sessione di meditazione?

Io so solo che sto fluttuando in un tornado multicolor di glitter, ed è difficile riflettere quando ci si trova in queste situazioni.

Un po’ come quando non ci sto capendo nulla anche nella mia vita.

Lì non vortichi e urli, ma cerchi comunque di trovare un senso.

Una risposta.

Anche se non ne sono mai stata mai capace.

Quindi, no, vento aureo: non chiedermi più chi sono, perché tanto non saprei risponderti e non vedo l’ora che questo tornado finisca per andare finalmente al mio primo giorno di college.

Perché la mia testa, al momento, è fatta di miliardi di domande ma neanche una certezza.
E questa cosa allarga ancora di più quella voragine che ho nel petto.

La mia vita è come un incubo di Sartre, scritto da Haruki Murakami dopo dieci caffè e aver mangiato dei graziosi funghetti dai colori strani e di dubbia provenienza, comprati per giunta nel deep web.

Questo è ciò che c’è nella mia testa quando provo a sistemare il caos che ho dentro. Ed è forse perché faccio questi pensieri che adesso si paralizzano davanti a me:

– Un bonsai che recita versi di Virgilio in una lingua che sembra aramaico.
«Lasciate ogne speranza, voi ch’intrate.»
Ma che stranamente riesco a comprendere.

– Una goccia di inchiostro che mi sussurra i miei incubi d’infanzia.
E in tutti questi io sono sola.

— E un tanuki con la voce di Lady Gaga che mi canta:

«Don’t call my name, don’t call my name, Seth
I’m not your babe, I’m not your babe, Saul
Don’t wanna kiss, don’t wanna touch
Just smoke my cigarette and hush
Don’t call my name, don’t call my name
Inari Ren»

E non capisco perché…
Perché il mio inconscio mi sta facendo cantare Alejandro?
Per giunta in un portale di raggi multicolor?

Ma non facciamoci troppe domande…
Immagino che sia solo una metafora per rappresentare il mio inconscio.

Mi ritrovo a rotolare in aria, mani e gambe che vanno ovunque, mentre urlo senza dignità, pensando:

«Ma che razza di servizio scadente è mai questo? Voglio parlare con l’assistenza clienti! Perché questo portale mi ha danneggiato tutti i chakra!»

Mi immagino già al telefono l’ipotetica risposta di una receptionist con la sfiga di avere a che fare con me:

“Sì, pronto? Avrei bisogno di un rimborso per un teletrasporto malfunzionante.
Ehm… come?!
Ah sì, certo che ho letto i termini e condizioni!”

Ovvio che non l’ho fatto…
Chi li legge mai?!

Non sono tipa da leggere le cose in piccolo e spesso rimango fregata dagli altri.

Avrei bisogno di amico avvocato.

Ma non ci penso più.

Perché un secondo dopo, vengo lanciata come un calzino spaiato fuori dalla spirale di non sense, atterrando faccia in giù sull’asfalto.

Mi sollevo lentamente, e mugugno con ironia, dicendo tra me.
«Davvero… la prossima volta prendo la metropolitana!»

…sì, anche se ci sono i chikan!


~FINE PRIMA PARTE
👇 INIZIO SECONDA PARTE.

Mi scrollo i detriti dai vestiti, provando a mantenere almeno un briciolo di compostezza, ma fallisco miseramente.
Mi guardo attorno, stordita e ancora tremante, e noto che sono circondata da centinaia di statue di volpi kitsune di pietra che mi fissano con lo stesso sguardo che aveva Kant quando spiegava la Critica della Ragion Pura agli ignoranti.

Insomma, mi scrutano come per dirmi…
«Ma tu guarda questa sfigata come inciampa sul niente per un po’ di vortice del velo: si vede che non è abituata.
Che novellina scema!»

Sbuffo. Perché non è una cosa piacevole fare una figuraccia davanti ai tuoi acerrimi nemici.
I tuoi rivali.

Per fortuna che, perlomeno, non mi ha visto quel famoso Inari Ren!

Avanzo di corsa, e in tutta fretta, perché il mio orologio da taschino si agita nella tasca come per dettarmi un nuovo tempo.

È un orologio da taschino in argento ossidato e madreperla, con inciso delle scaglie fatte di specchi rotti.
A ogni movimento, esso riflette qualcosa di diverso.
Mai due volte la stessa cosa.

Il quadrante non ha numeri.
Solo parole.
A ore dodici: “Chi sei?”
A ore tre: “Chi eri?”
A ore sei: “Chi fingi di essere?”
A ore nove: “Chi sei quando nessuno ti guarda?”

In base a tutte queste cose capisco che ore sono.
Ovviamente, io sono sempre in ritardo.
Perché?!
Perché sono sempre nell’orario in cui non so chi sono, ovvio.

fffhfhhf

Ma in meno che non si dica, arrivo finalmente al tempio Fushimi Inari.

Il tempio dedicato alla divinità androgina che governa tutte le volpi kitsune.
Inari…
Il demone mutaforma che stavo cercando!

Quello che tutti chiamano il demone senza cuore.

Sono curiosa di conoscerlo.

Ma non ci penso.
Mi convinco che non devo più perdere tempo.

Ci sono decisioni che non si prendono: accadono, come le cose naturali. Come la pioggia che non chiede permesso di infrangersi al suolo.

E così metto un piede avanti.
Poi un altro.

E all’improvviso, come un sipario che si solleva, i torii mi inghiottono.

Sono dentro a qualcosa di grande che mi avvolge con il suo rosso.

C’è rosso ovunque.

Arancioni, come se l’intero cielo del tramonto fosse stato ridotto in stecche verticali e inchiodato al suolo.
Soffocanti, ritmici, infiniti.

Cammino dentro un tunnel che respira.
Il terreno sotto i miei piedi è leggermente in pendenza, consumato da secoli di passi.
Profuma di legno umido, ferro antico, incenso spento e muschio.

Ogni colonna è liscia, ma quando sfiori la superficie, senti le incisioni: kanji tracciati a scalpello, come vene sottili nel corpo della divinità.

Non ne comprendo il significato.
E forse è giusto così.
Perché a volte, le cose sacre non sono fatte per essere capite, ma solo percorse.

Devono essere accettate così come sono.
Come dogmi.
Senza farsi troppe domande.

A volte c’è una rassicurazione viscerale nel spegnere il cervello e dirsi “non posso capire tutto”.

E va bene così.

Va bene così perché questa è l’esperienza umana.

Mille torii arancioni sopra di me che si susseguono in file infinite, creando un tunnel ipnotico.

Semplicemente meraviglioso.

Questo è il Fushimi Inari: un labirinto spirituale tutto fatto di un abbagliante rosso e kanji incomprensibili ma rassicuranti che riempiono il cuore.

Provo a recuperare un minimo di equilibrio, ma noto che alcuni vecchietti ultracentenari mi guardano perplessi.

Effettivamente li capisco.

Non è normale vedere una ragazza spuntare fuori da un portale cosmico e parlare da sola con un bottone e un bracciale di giada.

Quindi capisco se adesso mi stanno guardando male.

«Tutto bene, piccina?»
La voce gentile di un uomo né troppo vecchio né giovane mi raggiunge mentre si sistema la macchina fotografica appesa al collo,
con il passo lento e lo sguardo incuriosito di chi ha visto più torii di quanti io abbia mai immaginato.

«Sì, sì, tutto bene!»
Sorrido con troppa educazione, inchinandomi come si fa con chi è più grande.
Come si fa da queste parti.
Come ci si aspetta da me.

Poi mi sento costretta a giustificarmi.

«È solo che… il teletrasporto ha qualche effetto collaterale. Nausea, disorientamento… e perdita temporanea di dignità.»

Lui mi fissa.
Un attimo.
Poi scuote la testa, borbotta qualcosa in giapponese, e si allontana.
Suona come “che seccatura questi pazzi gaikokujin”

“Gaikokujin”.
Straniera.

Non giapponese.

Lo dice con la stessa leggerezza con cui si spolvera la giacca.
Ma io lo sento tutto.
Il pregiudizio.

Quella considerazione che ha di me con quella semplice parola: “straniera”

Ancora una volta, qualcuno mi ricorda che non sono abbastanza.
Che non appartengo a un posto.
Non solo per la mia nazionalità.
Ma per il modo in cui sono — per il fatto che esisto tra le righe, tra i margini, tra due mondi paralleli che nessuno vuole leggere insieme: il mondo reale e il mondo “altro” a cui appartengo.

E io vorrei dirglielo, a quel vecchietto.
Che non è colpa mia se gli emigrati olandesi e i portoghesi sono passati di qui secoli fa, piantando semi e lasciando tracce nel sangue che adesso mi scorre dentro.

Vorrei dirgli che, per quanto mi riguarda, sono giapponese anch’io.
Esattamente come lui.

Anche se non ho i lineamenti uguali ai suoi.

Perché io sono nata qui. Sono cresciuta qui. Ho respirato quest’aria, calpestato questo suolo, pregato sotto questi torii.

Io sono giapponese.

Mi dispiace per lui, se non riesce a vedermi.
Ma io esisto.
E ho diritto di stare qui.
Tanto quanto lui.

Tanto quanto chiunque altro.

Esisto anch’io vorrei urlargli.
Ma non lo faccio.
Perché in fondo, io un po’, non mi sento giapponese come lui.
E penso che lui abbia ragione.
Quindi sto zitta.

Mi ripeto che ho una missione da compiere oggi, e ho già perso troppo tempo, perché procrastinare è il mio talento naturale.

Cammino incerta, cercando di ignorare il dolore che mi scuote il corpo.
Un dolore che cerco di lenire strofinando ripetutamente la zona dolente all’altezza del sedere per la caduta poco raffinata fatta davanti ai locals.

E poi accade…

Improvvisamente sento qualcosa muoversi alle mie spalle, toccandomi un polpaccio.

Una piccola volpe si struscia su di me come se mi chiedesse del cibo.

Come se mi dicesse con le sue movenze:
«Tofu. Subito. O ti maledico la discendenza!»

Mi chiede precisamente omiyage.

Lo so, perché mi hanno istruita a riguardo.

Le volpi si aspettano un’offerta, perché sono le divinità di questo posto— le messaggere di Inari — e so che vanno matti per il tofu.

Ma non ho cibo con me e la cosa mi dispiace.

Se lo avessi, glielo avrei dato…
Perché anche tra nemici occorre rispettarsi a vicenda, mettendo il rancore da parte in favore di un tacito codice d’onore.

Bisogna essere leali anche quando si è in contrasto.
È così che bisogna fare.

Non sapendo come accontentarla, le faccio una carezza dolce, in segno di rispetto.
Poi mi purifico le mani alla fontana rituale, seguendo la prassi tradizionale Shinto.

Afferro il mestolo in legno con la mano destra, e verso l’acqua sulla sinistra. Poi cambio mano, e faccio lo stesso sulla destra.
Un antico rituale di purificazione dai tempi del Kojiki.

Uno dei libri cardine della cultura giapponese antica.

Perché in Giappone, la purificazione non è mai stata solo un gesto.

Risale al tempo del Dio Izanagi, quando, dopo essere sceso negli inferi per cercare la sua amata Izanami è tornato contaminato dal contatto con la morte.
Per purificarsi, si è immerso nell’acqua e, durante il rito, sono nate alcune divinità.
Amaterasu, dea del sole
Tsukuyomi, Dio della luna
E Susanoo, il Dio del Mare e delle Tempeste.
Il fratello più problematico.

È da questo che ha origine Yamato.
Ovvero il Giappone.

Questo è alla base della cultura giapponese.

E forse incontrerò queste divinità leggendarie a scuola.
Non vedo l’ora!

Attraverso quel gesto, assaporo un pezzo di storia, bagnandomi di quell’acqua che purifica.

Lo faccio per lasciare andare le impurità accumulate nel mondo materiale prima di accedere a quello spirituale.
Perché è così che va fatto.

L’acqua sembra come infondere gioia pura e limpida dentro di me con la sua freschezza incontaminata.

Sento la mia anima liberarsi da ogni peso.
Dalla paura. Dal contatto con la Morte. Dalle parole non dette di mio padre. E da quei discorsi che io non ho mai avuto il coraggio di affrontare con lui.

Ma sussurro mentalmente:
«Se per affrontare gli dei occorre purificarsi, la cosa va fatta anche per i demoni.
Per essere pronta quando li incontrerò faccia a faccia per combattere.»
E solo allora.
Solo una volta essermi purificata mi sentirò pronta.
Pronta per sfidarli.
Perché i demoni quando ti guardano negli occhi capiscono subito se c’è impurità dentro di te. E fanno di tutto per sfruttarla.

Ma io non ho paura: sarò pronta!
Pronta per affrontarli.

Il gelo dell’acqua mi riporta al presente.
E mi sento ormai decisa ad andare.

Entro dentro ai mille archi rossi del Fushimi Inari aspettandomi il peggio.
Ovvero il mutaforma più temuto dell’intero mondo magico.

Il temutissimo…
Inari Ren.

Faccio tre passi, come da tradizione, poi sbatto le mani due volte, forte.
Con tutta la forza che ho in corpo.
E urlo con altrettanta forza, l’incantesimo per accedere al portale:
«Kokoro wo sutete, kami ni fureyo…»
(Abbandona il cuore e tocca il divino.)

Queste sono le parole magiche per accedere a questo strambo college dell’occulto.

Per attivare lo Yūgen Gate.

“Il varco dell’invisibile, del mistero più profondo”

Questo varco dotato di questa incantevole e violenta luce dorata che illumina ogni cosa al suono delle mie parole magiche.

Dai torii in legno rosso iniziano a comparire delle venature dorate che man mano diventano lettere. Ideogrammi sinuosi.
Con un’infinità di parole e interpretazioni differenti, che mutano in base al soggetto che si imbatte in loro.

Ogni arco ha un ideogramma vivo, che si muove come tatuaggio animato.
Le parole ti si buttano addosso sperando di essere colte, afferrate.
Miliardi di lettere sbattono sulla mia faccia.

Vogliono essere raccolti da te per diventare la tua parola definitiva.
Quella parola che ti accompagnerà per tutto il tuo viaggio scolastico.
E per tutta la vita.

A volte ciò che ti capita è qualcosa di incomprensibile— che forse non capirà mai — altre volte è una perla di saggezza che ti cambierà la vita per sempre.
La parola che afferrerai a caso, e che ti si appiccicherà addosso sarà tua per sempre ad addobbare la tua divisa scolastica.

Così si racconta.

Sono curiosa di sapere quale sarà la parola che toccherà a me.

Amore?
Desiderio?
Identità?
Lussuria?
Vanità?

Non so…
Ciò che so è che sento un fremito.

Il legno inizia a tremare con sempre più forza fino a quando qualcosa cambia fuori e dentro di me.
I torii iniziano a brillare di una affascinante luce dorata, perlacea.
Uno a uno essi si illuminano, in sequenza in uno spettacolo psichedelico di colori.
L’ideogramma mi si getta addosso.
Ce ne sono tanti.
Si rincorrono, si sovrappongono, si dissolvono.

“Peccato” mi sfiora.
“Speranza” mi accarezza il viso
“Inadeguatezza” mi tira per i capelli.
E infine…
Il vuoto.

Quello che ho sempre provato.
Fin da bambina.

Le vedo tutte quelle parole.
E tutte mi rappresentano.
Le sento sfiorarmi la pelle, come se il portale mi stesse tastando l’anima.

Nessuno ancora mi sceglie.
Stanno lì a farsi la guerra tra loro.

Poi uno si ferma.
Un carattere.
Uno solo.

Preciso come una sentenza.

Tatemae.

E ciò che intende è che…
Sono una fake.
Una poser.

Non sono ciò che dico a me stessa di essere.

Mi dà un bacio sulle labbra e si deposita sulla mia divisa nera che inizia a emettere fluorescenze argentee a quel contatto.

Sento il bruciore sulla stoffa mentre si imprime sulla mia divisa.
Mi guardo.
Il carattere è lì.
Brilla.
Come se fosse contento di sé stesso.

Preciso come una sentenza.
Tagliente come un’accusa.
Che mi dice:
“eccoti come sei.
Tu sei tatemae”

Una che nella vita mente.
Una che non ha il coraggio di essere se stessa.

Tatemae (建前) ovvero la “facciata costruita”.
La maschera sociale.

Il ruolo che interpreti.
Non ciò che sei.

Non l’opinione che dici, anche se non è quella che senti.

Tatemae è ciò che mostri.
Non perché vuoi mentire, ma perché a volte la verità non la puoi dire apertamente.
Perché non verrebbe mai compresa o accettata dagli altri.

È la tua voce filtrata per non disturbare gli altri.
È il tuo sorriso che non arriva agli occhi.
È il tuo silenzio quando avresti voluto urlare.

In Giappone, essere Tatemae è considerato necessario.
Fa parte dell’armonia, dell’etichetta, del rispetto reciproco.
Ma per chi lo indossa troppo a lungo, diventa una seconda pelle che soffoca.

Io sono Tatemae all’interno della mia famiglia e mi sembra di esplodere.
Quindi questa etichetta mi rappresenta.

Sono tatemae quando recito il ruolo della figlia perfetta che prega al santuario.
Sono honne (la vera me) quando sogno un mondo in cui posso essere toccata da un ragazzo che mi piace.
Sono sempre in bilico tra questi due aspetti di me: tatemae vs. honne.
La vera me vs. la mia facciata sociale.

La verità, però, è che vorrei soltanto essere toccata. Non sessualmente, ma nell’anima, fino a raggiungere il mio universo interiore.
Come quando l’arte ci riesce.

L’opposto di tatemae è honne (本音):
la verità nuda e cruda.
Il sentire autentico.
Il pensiero che spesso resta nella mente e lì soltanto.

Quello che non posso essere e non sarò mai all’interno della mia famiglia.

La pelle brucia al suo contatto. Un bacio. Un dirsi “ti amo”.
Quello non lo vivrò mai grazie al mio celibato.

L’ideogramma si imprime al centro del mio petto parlando al mio cuore come per dirmi. «Lo so chi sei. Sei quella che sorride anche quando vorrebbe urlare. Quella che nasconde la rabbia nel decoro.
La lussuria dietro a mille convenzioni sociali.
Quella che ha paura di essere vista… davvero.
Eppure è questo ciò che sei.»

Il carattere brilla con arroganza.
Dicendomi questo:

“Tu sei Tatemae.
Una facciata.
Una maschera.
Il contrario della verità.
Accettati così come sei”

Ma io… no, non mi accetto.
Io non sono così.

Le rispondo sottovoce.

Lo penso, lo penso davvero.
Ma la parola non se ne va.
Resta.
Si compiace.
Mi guarda.
Mi giudica.
E io?
Io non posso far altro che restare lì, con il petto in fiamme e la certezza che quel simbolo mi ha ormai scelta.
Perché è questo ciò che sono.

Poi, il mondo ricomincia a muoversi. E all’improvviso… i torii iniziano a rompersi.
In modo violento e disarmante.

Il varco si è aperto e io sono pronta a entrare.

Tanto che temo di essere ferita, e in effetti una piccola scheggia mi fa sanguinare una guancia.

Cambiano colore continuamente:
✦ dal vermiglio al fucsia profondo
✦ dal dorato al blu inchiostro
✦ dal nero lacca al bianco madreperla

È come se mondo mondo reale si stesse decostruendo.
Per costruirne uno nuovo davanti ai miei occhi.
Dal reale al sovrannatuale.

Frammenti di legno si librano in aria, come se le leggi della fisica fossero andate in pensione.

Poi, nel cuore del nulla — in mezzo a quel turbine di colori sinestetici — accade qualcosa.
I frammenti dei torii si riuniscono in aria.
Girando su loro stessi, compongono nuove strutture.
Torii spezzati e ricuciti da fili di luce argentea.
Torii sospesi su specchi d’acqua che galleggiano nel vuoto.
E da lì…
Appare.
Il College dell’Occulto.

Una Versaille kawaii e kitch.
Un mausoleo cosmico rococò demoniaco.
Fatto di un nero madreperlaceo, cangiante, su cui scorrono riflessi argentei, viola lunari, rose gold, e blu cosmo, come se fossero galassie liquefatte.
E perle…
Perle e crisantemi bianchi ovunque.

I crisantemi.
I fiori della morte.

Qui tutto sembra sussurrare:

“Benvenuta nel college dell’Occulto del tempio Fushimi inari.
E… non ne uscirai più con lo stesso cuore.”

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