
L’ingresso del College non è un arco, non è una porta, non è nemmeno un portale.
È una crisi spirituale in architettura.
Una specie di mosh pit religioso in cui tutte le culture del mondo hanno avuto un esaurimento nervoso e hanno deciso di decorare insieme una discoteca interdimensionale.
Padiglioni di madreperla nera fluttuano a mezz’aria, decorati con lanterne purpuree che piangono versi di poesia.
Le pareti non sono pareti, ma veli di seta sospesa nel vento — il velo di Maya — su cui scorrono calligrafie d’oro che cambiano significato ogni volta che le guardi.
«Benvenuti nel College dell’Occulto, esserino mortale,» sussurra Jinn con un ghigno, mentre attraversa un portale ricamato di crisantemi bianchi.
«È solo un’illusione, Nym.»
Aggiunge Daimon, mentre accarezza una colonna fatta di ossa laccate e fiori di pruno.
«Ognuno di noi vede il college in maniera diversa, sai?
Tutti dipende da ciò che vuoi vedere.»
La cosa mi lascia di sasso, e mi fa chiedere “chissà come la vedono gli altri”.
Mi spiegano che il College dell’occulto non è mai uguale a se stesso due volte.
Le stanze si muovono, si riordinano, si contraddicono.
È contraddittoria come l’esperienza umana.
Anche quell’edificio è una Nave di Teseo che si ricostruisce di volta in volta.
Proprio come chi lo abita.
Il luogo è vivo. Non lo attraversi, ma ti attraversa.
Mutevole e cangiante così come è mutevole la vita.
Davanti a me si apre un viale surreale,
dove colonne doriche s’inchinano a minareti dorati, e tra le loro basi crescono torii vermigli contorti, come radici spirituali che hanno perso il senso del tempo.
Dagli architravi pendono lanterne cinesi e rosari fluorescenti, mentre scritture sanscrite animate scivolano sulle superfici come serpenti digitali.
Tra un torii e l’altro, si snoda un arco al neon che pulsa a ritmo di cuore, dove lampeggia in ideogrammi dorati e latino sghembo la frase:
«𝘏𝘪𝘤 𝘷𝘪𝘴𝘪𝘰 𝘧𝘪𝘵 𝘤𝘰𝘳𝘱𝘶𝘴, 𝘦𝘵 𝘵𝘦𝘯𝘦𝘣𝘳𝘢𝘦 𝘭𝘶𝘮𝘦𝘮 𝘱𝘢𝘳𝘪𝘶𝘯𝘵.»
(Qui la visione si fa carne, e le tenebre partoriscono la luce.)
Forse intende la luce della ragione.
Della verità sepolta negli abissi dell’inconscio.
Sul pavimento, tappeti persiani bruciacchiati si alternano a mosaici bizantini e mandala tibetani,
mentre una fontana centrale spruzza acqua che profuma di mirra, oud e Matcha Starbucks limited edition.
Intorno, mantra sanscriti si intrecciano a graffiti in arabo, passando per citazioni di Nietzsche scritte in calligrafia cinese su schermi al plasma.
Le pareti sono fatte di vetro e seta,
e riflettono il passante con una latenza disturbante.
In un riflesso sono io.
In un altro… sono la me che sarebbe nata altrove.
E in un terzo… sono solo un simbolo di dubbia comprensione.
Sopra l’ingresso principale campeggia un affresco cyber-pagano: Buddha e Cristo giocano a scacchi con Maometto che tiene il tempo, mentre Ermete Trismegisto e Lao Tzu fanno un selfie dietro di loro.
Una scritta lampeggia:
«Chi sei tu per entrare in questo posto?»
Ancora una volta qualcuno mi chiede chi sono e io non ho una risposta a quella domanda.
Forse, al termine di questo anno, scoprirò chi sono.
Sotto, in caratteri gotici giapponesi:
«𝘕𝘰𝘯 𝘴𝘢𝘪 𝘴𝘦 𝘴𝘵𝘢𝘪 𝘴𝘰𝘨𝘯𝘢𝘯𝘥𝘰, 𝘰 𝘴𝘦 𝘪 𝘴𝘰𝘨𝘯𝘪 𝘵𝘪 𝘴𝘵𝘢𝘯𝘯𝘰 𝘴𝘰𝘨𝘯𝘢𝘯𝘥𝘰.»
Jinn fluttua al mio fianco, pronto a fare ordine nel mio caos mentale.
«Qui la verità non ha senso, e il senso non è mai vero.»
Io mi stringo il bottone magico sul petto, perché mi manca Sethar.
Sento il cuore battere più forte.
Ho varcato il cancello tra tutti i mondi.
E forse — tutti i miei io mi stanno adesso guardando.
Avanzo.
Ogni passo mi strappa via qualcosa.
Un pregiudizio.
Un’idea su me stessa.
Un residuo di realtà.
E quello che vedo… non è un cortile scolastico.
È un delirio divino con orario accademico.
Sirene vanitose fluttuano sopra specchi d’acqua fluo, con uniformi cucite in squame iridescenti rosa e blu, mentre si fanno selfie nei riflessi, litigando su chi ha più “vibes da nereide top model”.
Parlano del numero dei followers che hanno su Hell-Gram.
Che immagino sia il loro social infernale.
Vampire sensuali passeggiano in slow-motion,
tra trench di velluto e morsi trattenuti, snocciolando versi di Baudelaire come fossero caption da Instagram gotico.
Una di loro, credo si chiami Selenia, mi guarda e dice:
«Adoro la tua aura da trauma represso. Sa molto di mood Post Covid.»
Più in là, lupi mannari giocano a calcio mistico nel cortile della scuola con una luna di cartapesta come palla, urlano in sanscrito e flirtano con cherubini punk che volano bassi per mostrare loro le cosce.
Gli angeli veri — quelli alti, con le sei ali e gli occhi che orbitano — sono troppo impegnati a discutere sulla teologia del dolore per notare la partita.
Un serafino con occhiali a specchio e stivali borchiati si avvicina, mi squadra dall’alto al basso, poi sentenzia:
«Serve più ombra nei tuoi chakra. Sei troppo chiara. Sarai un bersaglio qui dentro.»
Io non rispondo.
Sto ancora cercando di distinguere i giannizzeri celesti dagli oni giapponesi che servono mochi in un bar galleggiante chiamato Trascendenza Express.
E poi… li vedo.
O forse li immagino.
Ma qui, l’immaginazione è realtà che si è fatta audace. Sfilano tra gli studenti come se fossero normali, ma di normale non hanno niente.
Con passo felpato, arrivano di colpo Dorian Gray, in doppiopetto rosso sangue, si specchia su ogni superficie che trova — mentre una ninfa lo rincorre urlando «Restituiscimi l’autostima!»
Lui non si volta.
Troppo impegnato a mantenere vivo il mito della bellezza dannata.
Dietro di lui, i poeti maledetti giocano a chi fuma con più spleen: Baudelaire si trucca gli occhi, si sente un uccello goffo quando non scrive e passa il suo tempo tra gli umani.
Rimbaud litiga con un serafino marxista,
Verlaine si è fatto impiantare una lira nel petto e sanguina pentagrammi.
Poi arrivano loro: i conti della letteratura regency, che camminano lenti come se ogni passo fosse un giudizio morale.
Cappotto lungo. Guanti di pelle.
Sguardo che ti dice “so che sei impura, ma ti sposerei lo stesso se facessi la brava”.
Uno mi guarda.
Credo sia la reincarnazione di Mr Darcy, Mr Rochester e Heathcliff fusi insieme.
Mi viene da piangere.
Per l’utero.
Dietro di loro, un gruppo di pirati con accento francese, cappelli piumati e camicie sbottonate fino all’ombelico, distribuisce lettere d’amore scritte con inchiostro simpatico e veleno diluito.
Filosofi orientali, invece, passeggiano su tappeti volanti di calligrafia.
Lao Tzu si fa selfie col fantasma di Spinoza.
Confucio sorride a una strega da dark academia.
Al-Ghazālī scrive in aria con dita di luce,
e quando passi vicino a lui, ti cambia idea su te stessa.
Senza parlarti.
E poi ci sono loro.
Le figure classiche del rosa.
Quelle che conosci anche se non le hai mai lette.
❖ La orfana dal cuore grande con l’abito in pizzo e il trauma genitoriale.
❖ Il duca rude ma redimibile con l’addominale scolpito dalla colpa.
❖ La ragazza normale con il cardigan beige che finirà col ragazzo che legge Dostoevskij nudo.
Questi cliché sono ovunque.
Fiction si fonde con realtà.
Tutto qui ha senso.
Capisco che vivere dentro a questo College mi riserverà delle belle sorprese.
Questo posto non è solo una scuola, ma una biblioteca viva, una fanfiction divina, una pagina scritta da qualcuno che ha letto tutto — e poi ha voluto riscriverlo.
Dietro, con aria da “sto sopportando tutto questo solo perché sono superiore”, Schopenhauer avanza con un carlino impagliato sottobraccio.
Guarda tutti con un’espressione che grida:
«La vita mia qui dentro è come un pendolo che oscilla tra il cringe e il disagio esistenziale.»
Mozart corre allegro per il cortile rincorso da Salieri che vuole ammazzarlo.
Beethoven gli urla contro dal cielo, fluttuando su una nuvola fatta di partiture:
«𝄞 LA MIA MUSICA È PIÙ DRAMMATICA DELLA TUA!»
Intanto, Narciso si specchia nella pozza rituale dell’ingresso.
Il suo riflesso lo abbraccia.
Lui ricambia.
Stanno insieme da tre reincarnazioni.
Più in là, tutti i bad boy della fiction mi giudicano con lo sguardo per come sono vestita — tutti con una sigaretta in bocca e il giubbotto di pelle.
Poi arrivano i personaggi della letteratura russa che mi sussurrano all’orecchio:
«Soffri? Bene. Allora sei perfetta: penso proprio che ti farò una fanfiction.»
Mi accorgo che è dostoevskij.
Poi, le divinità.
Tutte.
Atena discute con Kannon sull’etica della compassione.
Afrodite è su un palco, truccata come una idol coreana, lanciando petali di rosa e opinioni scomode.
Odino beve sake con Amon-Ra, mentre Allah, invisibile ma percettibile, osserva tutto con una pazienza sovrumana, dicendo a tutti che “non bisogna sottomettere l’altro”, circondato dai 99 Nomi scritti in aria da calligrafi invisibili.
Vishnu ride con Hermes di uno scherzo su Aristotele.
Gesù suona la chitarra con Krishna a un falò di misticismo acido.
Dietro di loro, un’ombra bianca, elegantissima, danza da sola.
Forse è un kami.
Forse è solo la personificazione della solitudine con lo smalto perlato.
E in mezzo a questo caos…
ci sono anche i cliché femminile del rosa:
– la ragazza normale con la felpa larga e gli occhi da “nessuno mi capisce”
– l’orfana col trauma e la collana che nasconde un segreto.
– la cheerleader che riceve slut shaming solo per il fatto di essere una donna padrona del proprio corpo.
Tutti in scena. Tutti vivi. Tutti veri.
E io — io che sono cresciuta per combattere i demoni, ora sono circondata da dèi, archetipi, e ragazzi con le ali.
E mi sento più fuori luogo che mai.
Eppure questo è sempre meglio di restare a casa con i miei famigliari del Sangue Vivo.
Io sono qui.
Nel mezzo.
Con un bottone magico, un trauma taciuto…
e troppa voglia di capire chi cazzo sono.
In mezzo a tutto questo fantastico delirio spirituale.